Mi sono sempre sentito uno scalatore ma il mondo dell'arrampicata e dell’alpinismo, con sempre più regole e conformismo, mi va un po' stretto. Voglio precisare: adoro scalare e amo questa comunità, negli ultimi anni però ho sentito sempre più forte l'esigenza di andare un po' oltre, l'aspetto sportivo certamente conta ma per me conta anche e soprattutto scoprire cose nuove. Se penso a chi sono, o chi sono stati, i migliori alpinisti trovo che hanno tutti in comune una cosa: la fantasia e la voglia di uscire dagli schemi, e queste sono le persone che mi hanno sempre ispirato.
Lo Hielo Norte per me ha racchiuso tutto questo, dopo diverse stagioni in Patagonia avevo voglia di andare in posti nuovi, e per qualche anno ci ho dedicato tutte le energie possibili.
La prima volta è stata nell'estate australe 2018-19. Con Paolo Marazzi saliamo il Cerro Mangiafuoco, un impressionante pinnacolo di roccia che sbuca da solo in mezzo al ghiaccio.
Arriviamo in cima in una breve finestra di bel tempo e solo a quel punto ci rendiamo conto delle proporzioni dello Hielo. Siamo minuscoli in mezzo ad un ghiacciaio sconfinato, vediamo lontano l'Oceano Pacifico, il San Valentin, San Lorenzo e tantissime montagne e pareti enormi che non sappiamo nemmeno nominare.
Buttiamo le doppie con la promessa di ritornare.
L'anno successivo ci dedichiamo alla zona sud dello Hielo, l'idea è di salire una torre di granito di ottocento metri vista forse solo da Shipton nel lontano ‘64. L'accesso è complicato perché negli ultimi anni il ghiacciaio, specialmente a sud si è ritirato parecchio e ha creato moltissimi crepacci. Partiamo in tre, questa volta si aggiunge Giacomo Mauri, direttamente dal Pacifico in barca e poi risaliamo il ghiacciaio Steffen.
Dopo diverse decine di chilometri e una serie infinita di salite e discese cercando di aggirare i crepacci più grandi ci arrendiamo. Senza considerare che siamo a 13.000 chilometri da casa, in una zona estremamente isolata e senza possibilità di soccorso, abbiamo superato di molto la soglia di sicurezza e in più non riusciamo a passare.
Torniamo ancora nel 2022, questa volta con l'idea di fare una traversata nord-sud con sci e slitta fermandoci a scalare quando il tempo lo permette.
Prima ancora di accedere al ghiacciaio però troviamo i primi pendii innevati troppo instabili e siamo costretti a perdere preziosi giorni aspettando un miglioramento della neve.
Riusciamo comunque a salire una parete di roccia e a fare un lungo giro sul ghiacciaio in cui vediamo in lontananza, troppo lontane da raggiungere in una sola finestra di bel tempo, altre pareti incredibili.
Non è andata male ma in fondo sappiamo entrambi che è stato un ripiego e saremmo ritornati un’altra volta.
Quest'anno l'approccio è stato semplice: cerchiamo l'accesso più comodo e saliamo la parete più grossa che c'è ovvero il Cerro Nora Oeste. Come ogni volta, nonostante la pianificazione e una buona conoscenza della zona, le cose non vanno come avremmo voluto.
Appena arrivati scopriamo che l'unico modo per arrivare è attraverso la valle Nef e non la valle Colonia, quindi la strada è molto più lunga del previsto ma soprattutto quasi sconosciuta. Dovremo fare molti più giorni a piedi trasportando materiale che ci costeranno molto tempo ed energie. Partiamo a piedi seguendo i cavalli del gaucho che ci porta parte del materiale. Dopo tre giorni, quando il terreno si fa più complicato e giusto quando inizia a piovere Don Aguilino ci saluta e torna indietro. Ora siamo solo noi quattro (quest’anno con noi ci sono anche gli amici Andrea Carretta e Giovanni Ongaro), e la nostra attrezzatura.
Passiamo i successivi giorni a trasportare materiale nel fitto bosco fra problemi di orientamento, forte pioggia e moscerini. Dopo un’ultima nevicata che ci lascia fradici e infreddoliti sembra arrivare una finestra di un paio di giorni senza precipitazioni sullo Hielo, unico problema: non abbiamo il tempo di raggiungerlo se non depositando parte di cibo e materiale da recuperare in un secondo momento e stando il più leggeri possibile. Optiamo per questa soluzione, potremmo non avere altre possibilità viste le distanze enormi, e dopo altri due giorni a piedi ci dividiamo.
Io e Paolino acceleriamo cercando di andare a vedere la parete, Andrea e Gio ci raggiungeranno più tardi per fare qualche ripresa. Dopo otto giorni di avvicinamento finalmente vediamo l’enorme sud del cerro Nora che si trova però in condizioni invernali con ghiaccio e neve attaccati anche sotto i tetti e sulle placche.
Quando qualche ora dopo vediamo anche la parete nord che è in condizioni peggiori perdiamo ogni speranza sulla riuscita perché avendo visto quanto è lungo l’avvicinamento non sappiamo se avremo altre possibilità prima del rientro. Mentre stiamo per tornare indietro però intravediamo una possibilità sullo spigolo ovest che divide le due pareti, sembra una via semplice ma non ci è chiaro se si può passare fra i grossi funghi di neve nella parte alta.
Scaviamo una truna alla base della parete e smettiamo di pensarci. Di notte cala il vento e iniziamo ad arrampicare velocemente fino allo spigolo di roccia che superiamo senza problemi.
Troviamo il passaggio fra i funghi di neve proprio quando la giornata diventa caldissima, da lì una facile camminata sulla cresta ghiacciata ci porta in cima a questa montagna in quello che per noi è il posto più incredibile al mondo.
Il ritorno sarà lungo e ricco di imprevisti con lunghe giornate a piedi, altri boschi, morene e fiumi da guadare prima di iniziare a pagaiare sul piccolo canotto gonfiabile che abbiamo portato in fondo agli zaini per quasi tre settimane.
Insieme a Paolo in questi anni abbiamo passato molte settimane in quel posto, camminando, scalando e soprattutto aspettando nella tenda scossa dal vento.
Quando non eravamo lì fisicamente invece abbiamo sempre pensato alle pareti che avevamo visto e a quelle che avremmo voluto vedere, passando cinque anni a sognare e pianificare il viaggio successivo.
Ora se ripenso alla conclusione di questo ultimo viaggio mi rendo conto che qualcosa è cambiato davvero. Abbiamo più esperienza e conoscenza di questo ghiacciaio, ma soprattutto ci siamo resi conto che anche il nostro stesso passaggio, seppur in minima parte, ha tolto un po’ di quel mistero che inizialmente è stato proprio la spinta per farci partire. Forse quindi questo capitolo si è chiuso, le idee per la testa sono troppe e probabilmente è di nuovo ora di dedicarsi ad altro.
Articolo e fotografie di Luca Schiera, Febbraio 2024
Luca Schiera, Atleta Grivel dal 2017. È un alpinista e scalatore con sede a Erba (Italia).
Prodotto Grivel preferito: moschettone: Wire Lock TAU K12L .
“Mushin" is a zen mental state achieved when a person's mind is free from thoughts of anger, fear, or ego during combat or everyday life, so the person is totally free to act and react without hesitation and without disturbance from such thoughts.
Discover the incredible story and vision of Japanese alpinist Yasushi Yamanoi (Piolet d’Or Carrière 2021) in our new documentary film "Mushin - being Yasushi Yamanoi” by Ai Nagasawa.
English, Italian and French subtitles available.
#GrivelToEachTheirOwn
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L'appeal senza tempo della montagna più alta del mondo nelle parole di Rinaldo Carrel (primo italiano a conquistarla nel 1973) e François Cazzanelli (che l'ha scalata nel 2018), con una riflessione su come stia cambiando il mondo delle alte montagne e dell'alpinismo in generale.
Sottotitoli in inglese, italiano e francese disponibili.
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Luce e ombra, avventura e esplorazione, amicizia e freddo …
Il 12 e il 13 Febbraio 2023 François Cazzanelli, Emrik Favre e Stefano “Teto” Stradelli hanno aperto “Couloir Isaïe” (M8 – 7a/7a+ - AI5, 600m), una nuova via sul versante Ovest dell’Aiguille Noire du Peuterey, nel massiccio del Monte Bianco.
Questa è la loro storia.
Sottotitoli disponibili in Italiano, Inglese e Francese.
#GrivelToEachTheirOwn
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Mi ha motivato poter imparare una nuova tecnica di arrampicata e sono rimasta affascinata da questi attrezzi affilati da maneggiare con forza ma allo stesso tempo anche con molta delicatezza. All’inizio vedevo il dry-tooling in falesia solo come allenamento per le gare, ma dopo poche uscite con gli amici, ho capito che volevo migliorare anche qui e anno dopo anno ho puntato a salire vie sempre più difficili, fino a spostarmi anche in Canada e in Colorado per misurarmi con le vie di Misto e di dry-tooling più difficili del momento.
(PH Marco Servalli)
(PH Zach Mahone)
(PH Marco Servalli)
Nel 2015 avevo appena ripetuto “The Mustang” in Colorado, il mio primo M14- quando il famoso alpinista inglese Tom Ballard mi ha invitata a provare la sua nuova via, chiodata in una grotta delle Dolomiti. Dopo averla liberata, ha proposto il grado D15, questo significava che sarebbe stata la via di dry-tooling più difficile al mondo in quel momento.
Avevo viaggiato fino in Nordamerica per provare vie difficili, ora era un lusso avere un progetto nelle mie montagne di casa. La via “A Line Above The Sky” è una linea fantastica, che attraversa tutto il soffitto di questa grotta e risulta in una scalata lunga 40 metri, tutta strapiombante quasi in orizzontale.
Per me era da subito chiaro che volevo provare a fare questa via, per la bellezza della linea e del posto dove si trova ma anche per il grado che vedevo come grande obiettivo: scalare la via più dura del mondo!
(PH Jonathan White)
(PH Jonathan White)
(PH Jonathan White)
Ci sono riuscita nel 2017 e raggiungere questo traguardo è stato bellissimo. L’ho percepito come il coronamento dei più di 10 anni in cui ho dedicato tutto il mio cuore e concentrato tutta la mia motivazione sull’arrampicata con le piccozze ed i ramponi. Salire un D15 è stata una pietra miliare per me ma mi ha subito portata in un’altra dimensione, come se si aprisse una nuova pagina o un nuovo capitolo. Non ho sentito la voglia e la determinazione di spingermi verso un altro grado ancora più alto nel dry-tooling, come era accaduto dopo tutte le salite precedenti: sentivo infatti di essere arrivata. Non mi è passata in assoluto la voglia di scalare con le piccozze, ma sono entrata in una nuova fase in cui la mia attenzione è tornata all’arrampicata su roccia.
Considero l’arrampicata su roccia il mio primo amore, perché è con lei che mi sono appassionata del mondo verticale. Dopo i primi anni in cui ho partecipato a gare di arrampicata sportiva fino a vincere la Coppa Italia nel 2007, migliorando nell’arrampicata sportiva in falesia e su vie multipitch, ho scoperto l’arrampicata su ghiaccio e ho concentrato la mia energia quasi esclusivamente sulle gare ed i progetti di dry-tooling. I mesi invernali erano così intensi che in estate scalavo su roccia solo per divertimento, perché non riuscivo a spingere i miei limiti contemporaneamente anche nell’arrampicata sportiva.
(PH Diego Patete)
(PH Nikki Smith)
Nel 2017 ho deciso di smettere con le gare di ghiaccio. Ho subito sentito una carica di energia e motivazione e ho deciso di provare ad alzare il mio livello su roccia. Esattamente 6 mesi dopo aver messo la corda nel moschettone finale di “A Line Above The Sky”, ho chiuso il mio primo 8c su roccia (“5 Uve” a Narango, Arco). Dopo questi enormi traguardi raggiunti nel corso di così poco tempo, per un po’ ho pensato di aver raggiunto il mio massimo.
(PH Marco Servalli)
(PH Marco Servalli)
Quando ho iniziato ad arrampicare nel 1999, il 9a era il grado più alto che esisteva. Erano vie famose salite dai top climber, quelli di cui mi appendevo i poster in cameretta. Mai mi sarei sognata di arrivare un giorno a questo grado! Anche dopo il mio 8c, vedevo il 9a ancora lontanissimo. Sono una persona schematica e definisco obiettivi passo dopo passo. Solo un anno e mezzo fa ho concretizzato questo pensiero che nella mia testa ancora sembrava un po’ folle e ho detto ad alta voce: voglio fare il 9a!
(PH Lorenzo Belfrond)
Ho iniziato quindi degli allenamenti mirati per alzare il mio livello e all’inizio del 2022 ho individuato la via “Esclatamasters” in Spagna come possibile progetto. La prima parte della via strapiomba parecchio e richiede movimenti fisici, alternando canne da pinzare con svasi e qualche tacca. Dopo questa prima parte c’è un incastro di ginocchio molto buono dove si possono mollare le mani e riposare per poi affrontare la seconda parte della via, un muro grigio leggermente strapiombante con tacche sfuggenti, su cui spesso non si riesce a mettere neanche tutta la prima falange delle dita.
(PH Genis Zapater)
A ottobre dell’anno scorso sono partita per un primo viaggio in Spagna per vedere la via scelta: era fattibile? Ma soprattutto, mi piaceva? Credo infatti che sia fondamentale lavorare su vie che ci piacciono sia da un punto di vista tecnico sia estetico, per poter dare il massimo e tenere alta la motivazione. Arrivando nella frazione di Perles, un conglomerato di una decina di case di sassi ed una chiesetta romanica, si vede uno spettacolare arco di roccia, e proprio su uno dei lati di questo arco sale la linea di “Esclatamasters”; è stato chiaro da subito che il posto era bellissimo e che la via mi piaceva. Dopo qualche giro sono riuscita a fare tutti i singoli movimenti, anche se un paio erano davvero molto al limite. A quel punto ero carica e speranzosa, perché fare i singoli di una via ha per me sempre significato che prima o poi sarei riuscita a concatenarli tutti, e ho quindi visto la possibilità concreta di portare a casa il risultato.
(PH Genis Zapater)
(PH Genis Zapater)
(PH Genis Zapater)
Tornando a metà febbraio di quest’anno, ho trovato condizioni totalmente diverse, temperature più basse e un venticello frizzante, che mi hanno consentito di sentire le prese molto meglio rispetto ad ottobre. I miglioramenti sono arrivati quasi da subito. Il quarto giorno sulla via sono riuscita ad arrivare in catena con due resting ed il sesto giorno ho ridotto ad un solo resting. Da questo punto ho assistito ad un affascinante processo di continui miglioramenti che non avevo visto su nessun altro progetto in precedenza; ogni giorno che provavo la via riuscivo a fare uno, due, o tre movimenti in più per poi arrivare a rinviare la sosta con un sorriso enorme sulla faccia. Avevo salito il 9a, 6 anni dopo il D15!
(PH Genis Zapater)
(PH Genis Zapater)
Provare a salire una via al proprio limite è una sfida sia fisica che mentale. Ci si immerge totalmente negli allenamenti e durante i tentativi la via diventa il pensiero fisso. Credo che un mio punto forte è riuscire a vivere i tentativi su una via sempre in modo positivo, senza ossessione e senza demoralizzarmi anche nei giorni in cui non riesco a progredire. Vedo ogni giorno su un progetto come una semplice giornata bella in montagna, anche se in quel momento cerco di dare il mio massimo ed eseguire una performance perfetta.
(PH Genis Zapater)
Ho lavorato in modo concreto con allenamenti mirati per un anno e mezzo per realizzare sia il D15 sia il 9a e salirle è stato una gioia immensa. Su tutte due le due vie, questa felicità è stata amplificata anche dalla sensazione di aver portato a compimento non solo il progetto, ma di aver messo insieme allenamenti, consigli ed esperienze che ho raccolto in tutti questi anni di arrampicata. Il percorso è importante quanto il risultato. Però al contrario del D15, che ho visto come la chiusura di un capitolo, il 9a invece mi ha dato una carica di motivazione. È troppo presto per parlare di altri gradi ma sento di voler andare avanti ad esplorare i miei limiti. Sento di aver ancora energia da investire e sono curiosa di vedere dove mi porterà, dopo quasi 25 anni nel mondo dell’arrampicata. È proprio vero quello che diceva Walt Disney: “if you can dream it, you can do it!”
(PH Marco Zanone)
Angelika Rainer, classe 1986, è atleta Grivel sin dal 2005. Nata in Alto Adige (Italia), è diventata tre volte campionessa mondiale di arrampicata su ghiaccio e due volte vincitrice della Coppa del mondo di arrampicata su ghiaccio. Oggi pratica arrampicata su roccia, arrampicata su ghiaccio e drytooling.
Prodotto preferito Grivel: Dark Machine X ice axes
"Negli ultimi pochi anni ho liberato un paio di queste vie, un po' più isolate, nascoste, chiodate tanti anni fa. mi diverto e mi motiva molto”.
Guarda Marcello Bombardi mentre libera “El Puma” 9a, chiodato da Hervé Barmasse nella falesia di Chesod, Valtournenche, Italia.
Sottotitoli in Italiano, Inglese e Francese.
Video di @photografemproductions
3 amici e cima inviolata a 6850m in Karakorum. Una lunga attesa causa maltempo e poi un'inaspettata finestra di bel tempo che ha permesso loro di coronare il loro sogno.
THE CRYSTAL SHIP è uscito sul nostro canale YouTube!
Nel giugno 2022 Jerome Sullivan, Christophe Ogier e Victor Saucède si sono recati nel remoto ghiacciaio Hispar in Pakistan per tentare la prima salita del Pumari Chhish East (6850 m). Ci sono riusciti attraverso una nuova via che hanno chiamato The Crystal Ship (M7, 6b, A2, 1600m), dopo 5 giorni in parete.
Questa è la loro storia.
Sottotitoli in inglese, italiano e francese disponibili su YouTube.
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“Da un punto di vista proprio della scalata in fessura non ha davvero nulla da invidiare a tante altre grandissime classiche che ho fatto …
Avercela qua a due passi da casa, a Courmayeur, con il Bianco sullo sfondo, è qualcosa di incredibile.
Propone tutti i tipi di incastro, è proprio una scalata in fessura a tutti gli effetti”.
Il nostro atleta Marco Sappa su “Saxarate Reality”, una via in stile Yosemite a Courmayeur.
Sottotitoli in inglese, italiano e francese su YouTube.
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*Sottotitoli disponibili in Inglese, Italiano e Francese su YouTube.
L'arrampicata è creatività: porsi sempre nuovi traguardi, trovare soluzioni fantasiose e ricercare la bellezza di una nuova linea.
Il quinto episodio di “Beyond the rock - Climbing in Corsica” conclude questa serie dedicata all'arrampicata. Ci vediamo insieme al prossimo viaggio!
L'arrampicata può diventare un'ossessione? Crea dipendenza? Vorresti sempre di più?
Arrampicare è costruire legami e ricordi condivisi, che corrono sul filo della corda, fidarsi del proprio partner e spesso essere in sintonia senza bisogno di parole.
L'arrampicata è una sfida con se stessi, con gli altri alpinisti e a volte anche con la scalata stessa. È raggiungere la vetta, qualunque cosa significhi per te, alimenterà la tua autostima.
L’arrampicata è innanzitutto un grande viaggio, interiore ed esteriore, alla scoperta del mondo e di sé stessi.
Toni Gobbi è stato un alpinista, una guida alpina, un maestro di sci ed un imprenditore. Nato nel 1914 a Pavia e cresciuto a Vicenza, si è trasferito a Courmayeur nei primi anni ’40. Ha al suo attivo molte ascensioni importanti nella zona del Monte Bianco negli anni ’50, tra le quali spicca la prima salita del Grand Pilier d’Angle (4234m) insieme a Walter Bonatti nel 1957. Ha partecipato alle spedizioni italiane nelle Ande Patagoniche (1957-58) e al Gasherbrum IV (1958).
Dinamica guida alpina, è considerato non solo il padre dello scialpinismo italiano, ma anche un grande innovatore della disciplina ed un attivo divulgatore. È stato tra i fondatori della UIAGM (Union Internationale des Associations de Guides de Montagne), la federazione internazionale che riunisce le associazioni delle guide alpine.
Il suo negozio di articoli sportivi di Courmayeur, aperto nel 1948, è stato per molti anni un riferimento assoluto nelle alpi per conoscitori, sportivi ed appassionati.
È morto tragicamente nel 1970, in un incidente sul Sassopiatto, nelle Dolomiti.
"Il 18 marzo 1970 un incidente in montagna portava con sé la vita di mio nonno Antonio, detto Toni, Gobbi, poche settimane prima che i miei genitori si sposassero. Non l'ho mai conosciuto perché sono venuto al mondo alcuni anni dopo, ma il mio secondo nome, Antonio, è proprio in suo onore e ricordo. La sua prematura, inattesa e tragica scomparsa ha causato un forte trauma nella nostra famiglia, tanto è vero che ricordo molto bene da una parte la mia curiosità di bambino sul nonno paterno e dall’altra la difficoltà di toccare questo argomento che restava una ferita aperta.
Da quel giorno di marzo sono passati oltre 50 anni, io sono ormai adulto e lavoro proprio nel mondo della montagna che lui ha tanto amato. Vado quindi con grande interesse alla scoperta di questo personaggio, aprendo una finestra sulle mie origini e cercando di connettere i puntini della mia vita."
Oliviero Antonio Gobbi – titolare Grivel srl
Parte 1 - L’uomo: dalla città alla montagna
Parte 2 - L’alpinista: dalle Alpi al mondo
Nell'estate del 2000, Steve House, Mark Twight e Scott Backes hanno salito la via in una “single push” di 60 ore ed è stato solo quest'anno che la via è stata salita di nuovo nello stesso stile, da Alan Rousseau, Jackson Marvell e Matt Cornell in 21 ore e 35 minuti.
In questa doppia intervista spiegano lo scopo più profondo che li ha animati e la loro visione dell'alpinismo. Qual è lo stile “fast and light”?
#GrivelToEachTheirOwn
Sottotitoli disponibili in inglese, italiano e francese.
Tra il 17 aprile e il 21 maggio, Marek Raganowicz ha aperto MikroKozmik Variations (VII, A4 +, M5) presso Polar Sun Arm, isola di Baffin (Sam Ford Fiord), Canada. L'intera spedizione è durata 71 giorni, in cui Marek era solo nell'ambiente artico con temperature comprese tra -30 e -37 °C nel fiordo.
Traduzione dal polacco ed editing a cura di Luca Calvi.
In occasione di una serata tenuta presso un club d’alta montagna mi trovai a raccontare delle spedizioni all’Isola di Baffin, ovvero a parlare di freddo, di orsi polari e degli abitanti originali dell’Artico, ma soprattutto di pareti selvagge e di scalate pazzesche.
Quella sera, ad attirare la mia attenzione, fu una ragazza seduta in terza fila che peraltro non aveva proprio nulla di speciale per cui distinguersi e così finii col chiedermi per quale motivo proprio lei.
Forse fu proprio quel suo silenzio, o forse quell’aria riflessiva che sembrarono annunciare la domanda che alla fine mi fu posta, ovvero come si potesse sopravvivere a scalate in simili condizioni. La presentazione si stava avviando alla fine, quindi risposi brevemente che bisogna essere ben preparati e determinati, ma che occorre anche avere fortuna in quel gioco tra la parete, la natura selvaggia, le proprie debolezze e l’attrezzatura.
Un paio di mesi dopo una tempesta di vento alla base della parete dei Troll mi spazzò via la tenda e io stesso fui ricacciato indietro da quell’enorme parete a causa della forza dell’acqua e della neve. Tornai a casa, ma solo un paio di settimane dopo misi l’attrezzatura negli zaini e partii per l’Isola di Baffin.
Era il 20 marzo 2022, e la temperatura a Clyde River in piena regione artica era scesa a -37 gradi Celsius. Lì prima della partenza per la montagna la mia guida Esa mi ripeté più volte la domanda:
“Ma tu davvero vuoi che ti guidi fino al Sam Ford Fiord? Perché lì fa ancora più freddo!”
A quella domanda io continuai a ripetere a mugugni, come un asino cocciuto, che sarei andato alla Polar Sun Spire e che nulla mi avrebbe trattenuto.
A dire il vero non ero del tutto certo che sarei riuscito a salire quella parete e a resistere alla furia della natura dell’Artico.
Certo, avevo la miglior attrezzatura disponibile, un bel po’ di esperienza dalle spedizioni precedenti e sentivo dentro di me una fortissima motivazione, ma resta il fatto che in quel gioco il ruolo fondamentale è riservato all’ignoto. Continuava a tornarmi in mente la domanda della ragazza della terza fila, ma la forza d’attrazione della sfida non ascolta ciò che la ragione sussurra e non fa altro che spingerti ad andare avanti.
Così giovedì 24 marzo piazzammo sulla slitta i 230 kg dei miei bagagli e dopo cinque ore di viaggio in motoslitta arrivammo ai piedi della parete. Ad accompagnarmi furono due giovani Inuit, Ethan e Andy, che mi aiutarono a montare la tenda, mi prestarono un giaccone tradizionale per poter stare al caldo durante le passeggiate su e giù per il fiordo e mi lasciarono un fucile con alcune cartucce per poi spiegarmi in breve come sparare agli orsi polari, dopodiché mi salutarono con queste parole:
“Forza, ci rivediamo tra due mesi”.
Rimasi dunque da solo.
Esa aveva avuto ragione, faceva un freddo cane. Iniziò così l’avventura, lontano dalla civiltà, nel regno degli orsi polari, in mezzo al nulla, dove al massimo si vedono passare le slitte dei cacciatori o degli animali selvatici, dove mi trovai a vivere sotto una parete la cui fine potevo scorgere soltanto allungando il collo, fino a dover provare dolori insopportabili. All’inizio mi dovetti abituare alla realtà dell’Artico, così andavo a fare camminate, a scrutare la parete, ad osservare la via discesa e a verificare quanto tempo ci mettono le batterie a ricaricarsi con il pannello solare. Le passeggiate non potevano durare più di quattro ore, perché il freddo imponeva di proteggersi. Indossavo tutte le giacche e per ultimo il giaccone inuit che aveva un cappuccio foderato di pelliccia, grazie al quale riuscivo a proteggermi la faccia dal vento gelido e riuscivo a respirare senza problemi.
Non andava altrettanto bene a mani e piedi che mi si congelavano e che non riuscivo a proteggere a lungo, trovandomi così costretto a tornare dentro alla tenda a riscaldarmi con l’aiuto del fornelletto. In alcune occasioni mi capitò di vedere alcune slitte di cacciatori fermarsi, guardare nella mia direzione ma senza mai avvicinarsi ulteriormente. Mi diedero l’impressione di voler tenere quella distanza per rispetto dell’umano bisogno di solitudine.
Ci eravamo capiti, così come era successo le volte precedenti e quella fu sempre la parte più bella di tutte le mie spedizioni all’Isola di Baffin.
Quando capii che ormai stavo diventando parte del mondo dell’Artico e che stavo iniziando a vivere secondo il ritmo naturale di quell’ambiente, decisi di prendere confidenza con la parete e iniziai a posizionare le corde fisse. Ogni giorno uscivo dalla tenda e resistevo in parete quattro e addirittura cinque ore, dopo le quali dovevo scendere, poco importa se avessi terminato o meno la lunghezza da salire, perché la perdita di sensibilità ai piedi rappresentava il limite invalicabile che mi ero imposto.
Pochi giorni dopo già avevo attrezzato con corde fisse 7 lunghezze, quindi mi riposai e presi la decisione di attaccare definitivamente la parete. Da quel momento la tenda che fino ad allora era stato il mio campo base divenne un puntino che di giorno in giorno si allontanava sempre più nello sconfinato biancore del fiordo. Al suo interno erano rimasti il giaccone, il fucile con le cartucce e qualche oggetto personale. Casa mia era diventata la portaledge ed il mio mondo la parete nord della Polar Sun Arm. Era arrivato il momento per una scalata di quelle che danno la risposta alla domanda “chi sei per davvero”.
Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz scrisse un giorno “Cosa mai ti potrà capitare lì dove nulla ti si oppone e nulla è in grado di porti dei limiti?”
Ad opporsi davanti a me c’erano le sfide dell’Artico, quelle che segnavano i limiti delle mie possibilità:
Il freddo
In parete controllai la temperatura solo qualche volta, ma non aveva chissà quale senso farlo. Faceva semplicemente un freddo cane e lo sentivo ancor di più quando quasi soffocavo per nascondere il volto dentro al sacco a pelo doppio e quando nel mezzo della notte mi alzavo per accendere il fornelletto e riscaldarmi i piedi, oppure quando scendevo dalla portaledge a metà del tiro, terrorizzato dall’assenza di sensibilità ai piedi.
La neve
La neve dell’Artico in parete è differente da quella dell’Himalaya, delle Alpi o dei Tatra e ricorda lo zucchero con cui si glassa una torta, che ha bisogno di tempo e di cambi di temperatura per diventare un tutt’uno con ciò che si trova al di sotto e fino a quel momento dona alla parete voce e movimento, si spande con un unico enorme sbuffo rombante come se qualcuno avesse fatto partire un idrante pieno di neve. Durante i 35 giorni in parete mi è capitato di non uscire dalla portaledge a causa del pulviscolo nevoso solo due volte. Continuavo a ripetermi “Vai a scalare ogni giorno che poi altrimenti dovrai pentirti di ogni singola pausa”.
Il respiro della parete
A marzo il versante settentrionale della Polar Sun Spire sembra essere un monumento silenzioso. Poi, ad aprile e maggio inizia a respirare e ad esprimersi con il fragore delle pietre che cadono. Si staccano interi blocchi rocciosi, e a cadere sono anche le cornici nevose. Quando ancora andavo a dormire nella mia tenda, a svegliarmi durante la notte era l’assordante rimbombo degli schianti contro la neve alla base della guglia, rumore che in aperta parete si trasformava nel sibilo dello spostamento d’aria e nei boati con cui i massi andavano a fracassarsi contro le rocce, da destra da sinistra, da dietro…
La fame
Prima della partenza da Ottawa per l’Isola di Baffin mi trovai a dover fare la spesa delle cibarie per tutti i sessanta giorni. Era il 20.03.22, domenica, e al mattino mi ero fatto una colazione davvero sontuosa. La pancia piena, però, finì col farmi ridurre gli appunti segnati nella lista della spesa che mi ero preparato. Fu all’incirca quando ero a metà della parete che compresi chiaramente che occorre andare a fare gli acquisti quando si è ancora affamati. Durante gli ultimi dieci giorni della mia via, per resistere, mi trovai a dover diminuire della metà le mie razioni di cibo, quindi 5 cucchiai di crunchie, 3 caramelle e mezza barretta, dato che cioccolata, carne secca e frutta secca erano ormai finiti da tempo. Per cena un vero e proprio banchetto con mezza busta di cibo liofilizzato. Sognai in quel periodo non so quante volte di essere in un supermercato a riempire il carrello di tutto ciò che mi mancava.
La paura
Avevo paura. So che a più di qualcuno potrà sembrare strano, perché quale mai potrà essere quella paura che permette di andare fino alla fine del mondo per salire senza compagni una parete piena zeppa di roccia marcia, di blocchi instabili pronti a staccarsi, di fessure che scompaiono, di freddo e di “respiri” assolutamente imprevedibili? Ciò nonostante avevo paura, soprattutto all’inizio, quando ancora non ero stanco. In seguito riuscii ad abituarmi a quella mia parete, alla vita al suo interno e alla paura. Mi adeguai a quei “respiri”, accettai le incapacità e imparai a gioire delle piccole vittorie di ogni giorno.
La stanchezza
La stanchezza crescente da un lato attenua la paura e alimenta l’indifferenza, mentre dall’altro fa sì che la parete assuma un carattere particolare, personale, forse perché le esperienze forti si innestano, si radicano nella memoria e sono legate a quell’unicità di tempo e luogo. La parete smette di essere il precipizio o la semplice roccia che vedo davanti ai miei occhi e si trasforma in ricordi dell'inverno, della fame, della paura e della fatica.
Memorie che rimangono per sempre nella nostra memoria e che ci definiscono.
Quattro giorni dopo esser sceso dalla parete, mentre stavo aspettando l’aereo all’aeroporto di Clyde River, fui avvicinato da un Inuit. Sul suo volto bruciato dal vento gelido aveva i segni bianchi degli occhiali, il che stava per me a significare che si trattava di uno di quei cacciatori che in ogni momento libero sfrecciano con le motoslitte nel desertico biancore dell’Artico. Con la sua caratteristica cadenza lenta mi chiese:
“Eri tu quello che stava scalando nel Sam Ford Fiord?
Feci cenno di sì con la testa e gli rivolsi un sorriso cortese.
“Sono passato da quelle parti un paio di settimane fa, mi sono fermato a scrutare la parete cercando di individuarti, ma ciò che riuscivo a vedere era solo la tua portaledge gialla montata sopra gli strapiombi. È davvero bello vederti, sai, perché poi ho continuato a chiedermi chi mai potesse essere quel tizio che era salito su quella parete ed ero sicuro che ormai fossi morto…"
***
MikroKozmik Variations, VII, A4+, M5, Polar Sun Arm, Isola di Baffin (Sam Ford Fiord), Canada, 17.04 – 21.05.2022 (35 giorni) più 7 giorni di posizionamento corde fisse. Prima Ascensione: Marek Raganowicz.
Durata dell’intera spedizione: 19.03- 28.05.2022 (71 giorni)
Giornate passate nell’area di attività (Sam Ford Fiord): 24.03 – 22.05.2022 (59 giorni)
Giornate di posizionamento corde fisse: 7 giorni dal 01.04 al 12.04.2022
Giornate di scalata con bivacco in parete: 17.04 – 21.05.2022 (35 giorni)
Composizione della spedizione: Marek Raganowicz, senza accompagnatori, fotografi o cameraman.
Comunicazioni: Comunicatore di testo (no telefono satellitare).
Condizioni atmosferiche: Nelle prime settimane della spedizione le temperature all’interno del fiordo si mantenevano tra i -30 ed i -37 gradi Celsius. Le temperature in parete aperta (esposizione a nord) erano più basse dai 5 ai 10 gradi e si abbassavano ulteriormente all’interno di diedri, camini e fessure. Per la maggioranza dei bivacchi effettuati durante la salita il termometro all’interno della portaledge segnava dai meno venti ai meno venticinque. Sempre all’interno della portaledge le temperature massime raggiungevano durante il giorno i meno cinque.
Le ascensioni solitarie di pareti nell’Isola di Baffin appartengono alla categoria delle eccezionalmente rare. Finora hanno aperto vie i seguenti scalatori:
Charlie Porter (via Porter, VI, 5.9, A4, Monte Asgard North Tower, 01-10.09.1975).
Jim Beyer (Project Mayhem, VII, 5.10c, A5c, Mt. Thor, 2 stagioni 2000 i 2001).
Mike Libecki (The Hinayana, VI, 5.8, A3+, Ship’s Prow, aprile-giugno 1999).
Marek Raganowicz (due vie: 1. MantraMandala, VI, A3+, 23.03 – 08.04.2017, Ship’s Prow e 2. Secret of Silence, VI, A4, 23.04 – 01.05.2017 più 4 giorni per piazzare le corde fisse, Ship’s Prow).
Marek Raganowicz.
Come alpinista, sono nato sui Monti Tatra polacchi, poi sono cresciuto tra le Alpi e l'Himalaya. Il mio vero amore è l'arrampicata in solitaria e big wall, che ho iniziato a fare in Yosemite. Non mi limito a scalare grandi pareti, mi muovo e ci vivo, respirando il loro ritmo. L'arrampicata mi affascina; l'intensità dell'esperienza, la varietà della natura sul fianco della montagna, le sfide, la solitudine, le amicizie e il modo in cui le persone possono essere vinte dalla passione e dalle avventure dell'arrampicata.
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3 amici alpinisti, 2 vie collegate tra loro secondo un progetto visionario, 1 montagna iconica nel cuore delle Alpi.
MATTERHORN BIG WALL è uscito sul nostro canale YouTube!
A fine febbraio 2022 François Cazzanelli, Emrik Favre e Francesco Ratti hanno effettuato la prima ripetizione e prima invernale di “Padre Pio Prega Per Noi + Echelle Ver le Ciel” (1870m, 7b max) aperta da Patrick Gabarrou sulla parete sud del Cervino.
Questa è la loro storia.
Sottotitoli in Italiano, Inglese e Francese disponibili su YouTube
]]>*Per i nostri amici italiani: l'ultimo libro di Krisztof, "Krzysztof Wielicki – Frammenti di alpinismo", edito da Priuli & Verlucca, tradotto da Luca Calvi è ora in libreria!
https://www.priulieverlucca.it/catalogo/scheda/123Frammenti-di-alpinismo/898
]]>Krzysztof Wielicki è nato in Polonia il 5 gennaio 1950 e si è laureato in elettronica.
Il 17 febbraio 1980, con Leszek Chichy, ha effettuato la prima salita invernale dell'Everest (8848 m). È stata la prima salita invernale di una vetta di 8000 m.
Nel 1986, con Jerzy Kukuczka, ha effettuato la prima salita invernale del Kangchenjunga (8586m).
Nel 1988 ha effettuato la prima salita invernale del Lhotse (8516 m), in solitaria. È l'unica prima salita invernale in solitaria di una vetta di 8000 m.
Nel 1996, scalando il Nanga Parbat (8126 m), è diventato il 5° uomo a scalare tutte le 14 vette da 8000 m.
Nel 2019 ha ricevuto il Piolet d'Or alla carriera.
“Con i ramponi hanno scalato il pendio, senza tagliare gradini – per quanto desiderabili potessero sembrare – perché volevano risparmiare energie”. Così l’Alpine Journal sull’exploit dei fratelli Schmid sulla Nord del Cervino.
Era il 31 luglio del 1931 e stavano scrivendo un pezzo di storia dell’alpinismo, sulla parete più ambita del momento. Succedeva dopo un avventuroso viaggio in bicicletta fino a Zermatt e dopo un paio di lunghe giornate a osservare l’estetica parete nord del Matterhorn, come lo chiamano sul versante svizzero.
Trovata la via sono partiti lasciando in una tendina ai piedi della montagna un biglietto con nomi e destinazione; le incognite erano tantissime. Con sé hanno portato un paio di corde da 40 metri, 15 chiodi, moschettoni, sacchi da bivacco, qualcosa per rifocillarsi, picche e, ovviamente, due paia di ramponi. Attrezzi nati nel 1909 ai piedi del Monte Bianco e rapidamente diffusisi su larga scala nel mondo alpinistico. I primi pesavano quasi un chilo e mezzo, ma l’intuizione fu geniale. Grazie a queste punte metalliche fissate sotto agli scarponi non era più necessario il faticoso e lungo lavoro di intaglio dei gradini nel ghiaccio. La progressione poteva andare spedita, anche se trascinarsi ai piedi degli attrezzi così pesanti era comunque un bel lavoro.
Diciamo che andavano bene per tutti, al tempo, ma non tanto per chi si muoveva alla ricerca della prestazione come gli Alpini della scuola militare alpina di Aosta, che nei primi anni Trenta bussarono alle porte di Grivel con una richiesta ben precisa: un rampone leggero, resistente e pratico, da utilizzare per poter affrontate il neonato trofeo Mezzalama.
Una bella sfida per i fabbri, ormai celebri nel mondo delle attrezzature d’alpinismo, che accettarono con entusiasmo la proposta e si misero a studiare. Bisognava trovare un modo per diminuire lo spessore delle lamine metalliche senza perdere resistenza.
Così Laurent, figlio minore di Henry Grivel, si rivolse alle acciaierie Cogne di Aosta che gli proposero una nuova lega superleggera e resistente, nichel-cromo-molibdeno. Nel 1933 ai militari vennero consegnati dei ramponi da soli 360 grammi al paio, i “Superleggeri Grivel”, ma questo non bastò per vederli trionfare al duro Mezzalama, almeno fino al 1935. Dopo non ci fu più storia e gli Alpini dominarono la scena.
Leggeri e incompresi, gli innovativi ramponi rimasero ignorati dai più per diverso tempo. Diffidenti, gli alpinisti non guardarono subito con interesse a quei “fragili” attrezzi. Troppo sottili perché potessero dare l’impressione di essere stabili e sicuri sul ghiaccio. Solo i più forti si fecero allettare dall’idea di provare quella leggerezza così innovativa. Ecco allora che la guida di Courmayeur Arturo Ottoz si fece avanti e come lui anche Giusto Gervasutti, il Fortissimo, o Gabriele Boccalatte. Ma l’interesse per i ramponi Superleggeri crebbe solo con l’avvento dell’altissima quota.
Compresa la fisiologia umana e saggiata la fatica dell’aria rarefatta, gli alpinisti guardarono alla leggerezza con nuovo interesse. Non era più solo un aiuto in salita, si trattava di rendere efficiente la progressione risparmiando quante più energie possibili. Gli anni Cinquanta lasciarono così spazio ai Superleggeri, che nel giro di poco divennero protagonisti sulle più alte montagne della Terra. Solo i francesi sull’Annapurna non li usarono, ma il tempo degli Ottomila era ancora acerbo quando Maurice Herzog e Louis Lachenal toccarono il punto più alto della decima montagna della Terra. Dopo li avrebbero impiegati tutti.
Gli inglesi li usarono su Everest e Kangchenjunga ritenendoli strategici per la riuscita delle due salite, come dimostrato da un trafiletto su un vecchio notiziario CAI titolato “I fratelli Grivel dalla Regina Elisabetta”.
Amato e Camillo Grivel erano gli unici due stranieri invitati all’evento organizzato dal British Alpine Club nell’autunno del 1955 per celebrare la vittoriosa spedizione capace di violare il terzo Ottomila.
Un “particolare trattamento loro riservato per aver fornito alla spedizione britannica tutta l'attrezzatura di scalata e precisamente piccozze, chiodi e i rinomati ramponi Superleggeri a dodici punte da loro ideati ed ormai adottati dagli alpinisti di tutto il mondo. Anche il colonnello Hunt, capo della spedizione dell'Everest, era ricorso ai Grivel per la dotazione dei suoi scalatori. I due Grivel sono stati ricevuti anche dalla Regina Elisabetta che si è complimenta con loro per il valido contributo dato alla vittoria inglese”.
Le due spedizioni inglesi utilizzarono ramponi a 10 punte, anziché a 12. Una decisione basata sull’allora concetto di “mezzo artificiale”. Quelle due punte frontali furono viste come un trucchetto con cui avvantaggiarsi nel rapporto con la montagna. Un’idea condivisa da molti puristi del tempo, come il savoiardo André Contamine.
Una questione che aprirebbe le porte a un largo dibattito riguardo l’evoluzione dei materiali alpinistici. Due punte frontali no, ma ramponi superleggeri si? La leggerezza non andrebbe considerata alla stregua di un aiuto artificioso? Forse troppo, anche per i puristi. Eppure, in qualche modo, questi nuovi mezzi permisero innovative realizzazioni in campo alpinistico. Esattamente come le punte frontali, comparse nel 1929, senza cui probabilmente non ci sarebbe stata la prima della nord dell’Eiger. Fatto sta che gli inglesi raggiunsero il tetto del mondo con 10 punte e meno di 500 grammi sotto ai piedi.
Quelli a 12 punte li scelsero gli italiani di Ardito Desio sul K2, anche se la cosa non fu immediata. Nel 1953, durante un campo test organizzato al Plateau Rosa, gli alpinisti portarono ramponi di un’altra marca che nel giro di poco si rivelarono deludenti.
La storia narra che fu il futuro primo salitore Achille Compagnoni ad affermare, nello sconforto generale, “A Courmayer esiste una realtà che produce ramponi!”.
Gli occhi di tutti si illuminarono e così lo sguardo si pose sulla fucina Grivel, ai piedi del Monte Bianco. Meno di un anno dopo sarebbero partiti alla volta del difficile K2, indossando acciaio superleggero capace di mordere anche il ghiaccio sferzato dai temibili venti del Karakorum.
Immagini: Archivio Grivel
Scopri di più sulle Punte d'acciaio nella forgia di Grivel
Leggi la storia de "L'ingegnere, il rampone e la bestia" di Marina Morpurgo
Gian Luca Gasca, classe 1991, scrive e racconta di montagna collaborando con testate di settore e generaliste. Nel 2015 sposa la filosofia del “viaggio sostenibile” iniziando a girare per i monti a piedi o con i mezzi pubblici. Così si trova a percorrere interamente le Alpi da Trieste a Nizza. Un’esperienza che poi prosegue nel 2016 con gli Appennini e nel 2017, quando lascia l’Italia per andare da Torino al K2 via terra e con i mezzi pubblici.
]]>Tentativi precedenti sulla parete nord del Cerro Torre
17 anni di arrampicata a El Chalten… Posso dire che il mio percorso è stato progressivo e ricco di esperienze arricchenti.
Nel 2013 abbiamo salito con Nicolas Benedetti la Aguja Standhard per la via Festerville, una piacevole parete nord, con un po' di tutto per raggiungere la vetta del piccolo fungo (che non c'è più). Da lì abbiamo potuto osservare l'imponente parete nord del Cerro Torre, a bocca aperta per un attimo, e poi ci siamo detti: “Quella parete si può scalare! Guarda i sistemi di fessure che si intuiscono ...”
La verità è che dalla Aguja Standhart Needle non si vedeva nessuna fessura... ahah, ma beh la nostra immaginazione ci ha permesso di sognare, e se puoi sognarlo puoi realizzarlo!
Due settimane dopo abbiamo approfittato di una finestra di bel tempo, non lunghissima, ma la voglia di provare quel granito era fortissima. Non avevamo idea di cosa avremmo trovato, se fosse stato possibile scalare quella parete, se ci fossero davvero dei sistemi di fessure, punti deboli che ci avrebbero permesso di progredire in verticale. Questo primo tentativo è stato più che buono, abbiamo salito 6 nuovi tiri sulla parete nord, era possibile l'arrampicata su scala micro. Ma su scala macro bisognerebbe studiarla meglio, pensare a una strategia, servirebbe anche una finestra di bel tempo più lunga. Siamo rientrati da quel punto molto contenti di ciò che avevamo fatto, soprattutto l'apprendimento e le speranze di poter scalare quella parete "impossibile" che custodisce così tanta storia.
Nell'anno 2014 si torna alla carica! Questa volta abbiamo cambiato strategia, abbiamo aggiunto un terzo alla cordata. Un grande amico ed eccellente scalatore, Jorge Ackermann. Portiamo più attrezzatura, anticipando qualsiasi tipo di terreno. La motivazione "eccessiva" ci spinge ad un tentativo senza avere buone condizioni in parete.
Salire al box degli inglesi è una vera "roulette russa", fuggiamo dalla montagna come topi... una volta al campo Noruegos, riorganizziamo l'attrezzatura e senza dormire, affrontiamo l'Afanasieff da lì... a vista, senza dormire, con la metà del Torre alle nostre spalle, abbiamo scalato l'Afanasieff in 17 ore in 3 … abbiamo improvvisato molto, chiaramente eravamo molto forti ma il Torre è una montagna, oltre che complicata, con condizioni particolari.
Passano molti anni, molte cose nel mezzo, ma la fiamma interiore di quella bella montagna è ancora accesa.
Nel 2019 si torna, questa volta la squadra è composta da Jorge Ackermann e Korra Pesce, quest'ultimo maestro del ghiaccio e del misto. Un Joker chiave per una montagna di questa portata...
Abbiamo molte più informazioni, foto migliori dalla Torre Egger, poiché negli anni precedenti abbiamo scalato questa bellissima torre più volte attraverso diverse vie, avendo preziose foto della parte superiore che ci mancava.
Inoltre con gli anni guadagnati siamo riusciti a capire meglio il comportamento di questi giganti ghiacciati, come cambiano a seconda del tempo, della temperatura, del vento, ecc... La strategia è molto più raffinata.
La finestra di bel tempo sta volgendo al termine, abbiamo deciso di iniziare la via con un tentativo denominato “Un Sogno Interrotto” che si rivela di migliore qualità per via di uno sperone più protetto rispetto all'Americana per la Torre Egger, che sale sotto il nevaio triangolare.
La strategia di scalata senza sosta fino alla cima del primo fungo, lungo la nord. Questa volta abbiamo sottovalutato la parete, non essendo abbastanza veloci, abbiamo raggiunto l'altezza della traversata "Burke-Proctor" a mezzogiorno, molto calda, la parete era piuttosto carica di brina, che genera una caduta costante di ghiaccio e cascate di acqua. Dobbiamo rifugiarci in un grande diedro, protetto ma molto scomodo. Korra decide di provare il tiro successivo, e in pochi passi di artificiale cade, rompendosi un dito. Scende alla sosta e con una mano piena di sangue la puliamo, la fasciamo, si mette i guanti e pensiamo a come procedere. Scendere? No, proviamo a continuare erano le parole di Korra! E così è stato, Jorge sale due nuovi tiri all'inizio di un corridoio verticale di ghiaccio, e sorprendentemente Korra, con un dito rotto, apre il successivo tiro di ghiaccio! Abbiamo raggiunto la cima del primo fungo dove ci siamo sdraiati e abbiamo dormito per alcune ore. All'alba il vento aumentava molto, i nostri corpi intorpiditi da tanta stanchezza, più di 40 ore senza dormire, a disagio appesi alle soste, e Korra con il dito che immagino deve aver fatto molto male. Abbiamo deciso di scendere, metterci al riparo e lasciare questo sogno per un'altra volta...
Nell'estate del 2020 ci incontriamo di nuovo con Korra e Jorge a El Chalten. In questa stagione non abbiamo nemmeno la possibilità di provare la nostra via, condizioni molto dure, molto gelo e neve in parete. Abbiamo scalato la Torre e il Fitz per altre vie come per sfogare il vizio...
2022: la chiusura della nuova via "La Norte" e l’incidente
Dopo il periodo più rigido della pandemia, abbiamo cercato di coordinare un altro tentativo al nord, Jorge è in Canada e quest'anno è difficile venire in Patagonia. Korra ha organizzato il suo inverno per venire da Chamonix a Chalten per due mesi, o meglio fino alla riuscita del progetto...
Ho incontrato Korra il 21 gennaio di quest'anno, una gioia immensa rivedere il mio amico dopo 2 anni, siamo molto felici. Ci incontriamo a casa mia, parliamo un po' delle nostre vite, ci aggiorniamo... e cambiamo velocemente argomento... “Hai visto il tempo? Sì… viene molto bello e ci sono buone condizioni…”.
Abbiamo due giorni di riposo in città, ma non c'è tempo per portare materiale al campo di Noruegos, perché saremmo stanchi per la salita. Abbiamo deciso per la prima volta di ingaggiare dei facchini per alleggerire i nostri zaini. L'accesso alla Valle del Torre è sempre più difficile, faticoso e lungo, a causa del ritiro dei ghiacciai.
Il 24 si comincia a camminare, è ora... con zaini leggeri ci vogliono circa 8 ore per arrivare al campo... pensando che gli altri anni 4 ore erano sufficienti.
Con nostra sorpresa, la parete è abbastanza nevosa, le precipitazioni sono stata più umide del normale.
Abbiamo deciso il giorno successivo di lasciare il 25 al sole per pulire il muro. Ne approfittiamo al mattino e attrezziamo 3 tiri. Lasciamo del materiale ai piedi della via e torniamo al campo per riposarci.
Il 26 ci siamo svegliati alle 1:15 a Noruegos, ci siamo avvicinati al ghiacciaio, abbiamo salito le 3 corde e abbiamo continuato a salire, questa prima parte non è stata pulita completamente quindi siamo saliti un po' più lentamente per i tiri con ghiaccio e verglas.
Verso mezzogiorno arriviamo al nostro bivacco, all'altezza del Box degli Inglesi ma proprio di fronte, su uno sperone di roccia dove è presente una mensola naturale, con una grande lastra di granito che ci protegge e con cui ci assicuriamo. In quello stesso luogo abbiamo bivaccato con Nicolas nel 2013. Dopo aver lasciato la nostra attrezzatura da bivacco e parte del peso, abbiamo proseguito a lungo verso nord lungo alcune rampe diagonali, fino a raggiungere il punto di partenza della nostra Linea sulla Nord.
Saliamo e fissiamo il primo tiro di 50 metri che è il più difficile, con difficoltà di A2, ma con potenziale caduta in cengia. Infatti, nel 2019 ho subito una caduta quando un micro-friend è saltato e ho colpito la sporgenza con il gomito, essendo molto fortunato per via della dinamizzazione di Korra e di un chiodo che reggeva. Dopo aver sistemato questo primo tiro, ci caliamo in doppia e torniamo al bivacco.
Il 27 ci siamo svegliati alle 0:00 e abbiamo iniziato a salire le corde fisse all'1:00. Abbiamo lasciato il nostro materiale da bivacco sulla cengia e abbiamo deciso di salire in vetta senza sosta e di scendere la stessa via di notte. Il primo blocco di 7 tiri della parete nord devo andare per primo, li conosco bene perché l'ho salito già due volte in precedenti tentativi.
Nonostante l'arrampicata notturna, con un po' di verglas e ghiaccio in alcune fessure e placche, sono riuscito a fare rapidi progressi raggiungendo la traversata Burke-Proctor in sole 6 ore. Continuo unendo due brevi tiri che Jorge aveva aperto nel precedente tentativo, in un tiro di 50 metri.
Da qui Korra passa da primo, poiché grazie alle sue abilità su terreno ghiacciato e misto, farebbe meglio a salire il pezzo successivo.
Alle 11:00 ci troviamo con Korra nel punto più alto precedentemente raggiunto, da qui in su è terra vergine, ma l'abbiamo studiata molto bene con foto di altri anni dalla Torre Egger. In ogni caso le foto da lontano danno solo un'idea e l'incertezza da metro a metro è grande.
Korra inizia a risalire un sistema di fessure, navigando attraverso il ghiaccio aggrappato alla parete fino a raggiungere una cengia naturale, dove allestisce la sosta successiva.
Io salgo velocemente e issiamo il borsone. Il tiro successivo sembra incredibile! Un sistema di fessure parallele nel granito incontaminato... Korra avanza rapidamente.
Ancora una volta gli italiani (Matteo Della Bordella, Matteo De Zaiacomo and David Bacci, anche loro intenti ad aprire una nuova via) ci raggiungono seguendo i nostri passi, questa volta Matteo va da primo. Prima di iniziare con il jumar, mi chiede di fissare la sua corda perché erano stanchi e non volevano perdere tempo per l'esposizione della via. Salgo col Jumar il tiro successivo, che tra l'altro sembrava fantastico da scalare!
Arrivo alla sosta, attacco la corda agli italiani, prendo il mio borsone e continuo assicurando Korra.
Il tiro successivo è più facile all’apparenza, ma in realtà più insidioso, navigando da destra a sinistra per gestire le sezioni difficili, passiamo rapidamente sotto un fungo intimidatorio alla sosta successiva. Per il tiro successivo Korra prosegue con scarpette per la prima metà, per poi passare a scarponi, ramponi e piccozze per raggiungere la sosta successiva, due tiri sotto la vetta! Anche su questo tiro gli italiani ci chiedono di fissare la loro corda.
Il tiro successivo è un bellissimo corridoio di ghiaccio di 90 gradi che ci lascia alla base dell'ultimo fungo, unendosi solo lì con la via dei Ragni che arriva dalla parete ovest.
Il tiro successivo richiede a Korra solo 20 minuti per salire, e alle 17:20 ci incontriamo in vetta al Cerro Torre.
Intorno alle 19:00 abbiamo iniziato a scendere in doppia la parte alta della parete nord fino a raggiungere il fungo dove siamo arrivati nel 2019. Lì abbiamo deciso di aspettare fino alle 22:00 perché si raffreddasse e la parete smettesse di gocciolare. Continuiamo la discesa verso il nostro bivacco, arrivando verso le 2:00 circa, dove ci fermiamo per idratarci, mangiare qualcosa, riposare un po' e poi proseguire…….
Mentre dormivamo, verso le 3:30 circa, un forte rumore ci ha svegliati, nel buio abbiamo sentito un'enorme valanga avvicinarsi dall'alto, direttamente verso di noi... è stato tutto così veloce che non ci siamo potuti dire nulla, ci sdraiamo sul fianco destro e cerchiamo di proteggerci dagli urti. Prendo il saccone per cercare di usarlo come scudo ma è inutile... dopo qualche secondo di colpi multipli, un grosso colpo ci comprime al suolo, sento tante delle mie ossa che si rompono... le nostre corde vengono tagliate e rotoliamo alcuni metri più in basso, fermandoci miracolosamente prima della parete verticale.
Al buio, il dolore è estremo, non riesco a muovere la schiena o le braccia e Korra non riesce a muovere le gambe. Accendo la torcia, ci rendiamo conto che le nostre corde sono state tagliate e siamo non assicurati su una piattaforma di ghiaccio, senza ramponi. Guardo verso il nostro bivacco, e non posso credere a quello che vedo... è scomparsa una grande lastra di granito di circa 2 x 1,5 metri che ci "proteggeva". A quel blocco era appeso tutto il nostro materiale… abbiamo perso tutta l'attrezzatura.
Cerco disperatamente l'Inreach, non ci sono tracce di nulla, sembra che sia volato insieme al resto del materiale per 600 metri fino al ghiacciaio... l'unica speranza che mi resta è fare segnali di luce di S.O.S. sperando che qualcuno li veda miracolosamente, nelle prime ore del mattino. Non vedo alcuna risposta. Se anche avessi visto una risposta, non ci sarebbe stata alcuna garanzia di soccorso, poiché a El Chalten non ci sono elicotteri o piloti preparati per eseguire soccorsi in parete. E siamo d'accordo che siamo su una delle pareti più difficili di una delle montagne più difficili del mondo...
Per circa 3 ore pensiamo entrambi che moriremo. Korra sdraiato nello stesso punto in cui si trovava dopo l'incidente, e io seduto a 2 metri più in alto. L'unica cosa che posso fare è assicurare il mio amico con un pezzo di corda che ci è rimasto in modo che non cada. Il dolore fisico è estremo, la tristezza di accettare la morte è inspiegabile.
Allo spuntare dell'alba, senza alcuna spiegazione logica, indosso un rampone che ho trovato. Mi alzo e faccio alcuni passi sulla cengia. Il rampone si impiglia in un sacchetto di cibo che è stato sepolto 10 cm sotto il ghiaccio tritato… le mie speranze di ritrovare l'Inreach tornano. Calcio di lato e trovo la piccola borsa con l'Inreach!
Invio tre messaggi di aiuto a diversi contatti spiegando cosa è successo e attivo l'SOS. I messaggi non partono perché siamo su un terreno molto verticale che rende difficile il segnale satellitare. Non volevo lasciare Korra da solo, ma lui insiste perché io scenda di sotto, dice che non ha possibilità di sopravvivere a causa delle ferite riportate. Dopo un po' di discussioni e meditazioni, mi rendo conto che l'unico modo per inviare i messaggi è spostarmi dal luogo, e anche per avere la possibilità di essere salvato devo scendere da solo almeno gran parte della discesa.
Verso le 6:30 prendo coraggio, con le lacrime agli occhi saluto il mio amico dicendogli di tenere duro perché i soccorsi arriveranno...
Raccolgo il poco materiale che ho trovato, compresa la corda di 50 metri. Comincio a scendere molto lentamente, il dolore è straziante. Sono obbligato a scendere in doppia non più di 15 o 20 metri alla volta, impiegando circa 1 ora ogni calata ...
Finalmente arrivo al Nevero Triangular, molto stanco, quasi senza materiale. Per continuare la discesa bisogna prima attraversare 60 metri a sinistra, con 1 rampone, 1 piccozza, su una pendenza di 60 gradi. Nelle mie condizioni fisiche, con tutte le ferite e le limitazioni che porto, è quasi un tentativo suicida. Decido a quel punto di aspettare i soccorsi, avevo già ricevuto la conferma che avrebbero provato a salire fino a dove mi trovavo, e ho potuto vedere anche tutta la gente radunarsi ai piedi della montagna sul ghiacciaio.
Alle 21:45 vedo apparire il primo soccorritore a soli 30 metri di distanza… Dopo 18 ore di incertezza, so che sopravvivrò.
Sfortunatamente Korra non può essere soccorso. È molto tardi, si avvicina una tempesta, le risorse di cui dispone la Comision de Auxilio non sono sufficienti e dubito sinceramente che sarebbe sopravvissuto molto a lungo, a causa delle ferite riportate.
La Norte è stata la scalata della mia vita, il mio più grande traguardo, il progetto che mi ha preso più tempo, energia e dedizione... Abbiamo vissuto ogni tipo di esperienza su questa parete, come se un'intera vita fosse scivolata fuori dalle nostre mani...
La fine è stata molto triste, sfortunatamente il mio grande amico Korra riposa eternamente lì e io sono miracolosamente sopravvissuto. Sento che questa è la fine di una fase della mia vita, e allo stesso tempo una rinascita. Tali dure esperienze ci rafforzano e ci rendono più saggi.
Il costo della parete nord è stato molto alto, non eravamo disposti a pagare così tanto...
Si scrive un nuovo capitolo della storia del Cerro Torre. Sembra che alcuni schemi si ripetano... una settimana dopo l'incidente, una squadra di soccorso cerca di localizzare il corpo. Di lui non ci sono tracce e si presume che sia caduto nel ghiacciaio, sepolto da nuove valanghe e nevicate. Mi sono rimaste solo foto sul telefono per ricordare questa esperienza, poiché anche la go-pro e l'altra fotocamera sono state spazzate via dalla valanga.
Caro amico... mi mancherai moltissimo... grazie di tutto e che tu possa riposare in pace, ai piedi della montagna dei tuoi sogni.
Tomas Roy Aguilò è una guida alpina argentina, classe 1984, nel team Grivel dal 2018. Cresciuto in Patagonia, pratica Alpinismo, Arrampicata Sportiva, Scialpinismo e Running.
Prodotti Grivel preferiti: ramponi G20 PLUS, piccozze North Machine Carbon, rinvii Alpha Captive, zaino Mountain Runner EVO 20.
]]>"Lo sci è sicuramente l’attrezzo che mi permette di essere più in contatto, più in simbiosi con l’ambiente, la natura, la montagna. Io mi definisco come scialpinista.
Per me la componente della salita è importante tanto quanto la componente della cima e della discesa. Nella giornata ideale, quella perfetta, tutte e tre queste componenti sono al meglio, nel senso che una bella salita tecnica magari viene seguita da una cima celebre, che può essere una montagna sopra i 4000 m, e poi seguita ancora da una discesa in buone condizioni".
Sottotitoli disponibili in Italiano, Inglese e Francese.
#GrivelToEachTheirOwn
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Abbiamo deciso di sospendere temporaneamente le consegne in Russia. Crediamo che la somma di tante piccole azioni possa avere un grande impatto.
L'arrampicata e l'alpinismo ci hanno insegnato il rispetto reciproco e il lavoro di squadra: deploriamo con la massima fermezza qualsiasi uso della violenza di stato o individuale nel perseguimento di qualsiasi scopo e crediamo nella democrazia e nella libertà al di sopra di ogni altra cosa.
La nostra solidarietà è oggi con l'Ucraina e gli ucraini. Monitoreremo da vicino l'evoluzione della situazione per decidere le nostre prossime azioni.
Tra il 27 febbraio e il 1 marzo i nostri atleti François Cazzanelli ed Emrik Favre, insieme a Francesco Ratti, hanno effettuato con successo la prima ripetizione e prima invernale di 'Padre Pio Prega Per Noi + Echelle Ver le Ciel' (1.870 m, 7b) sulla parete sud del Cervino.
La prima salita di questo collegamento è stata fatta da Patrick Gabarrou, nel 2016, mentre cercava di trovare una via diretta per la vetta del Cervino dalla sua precedente via (2002) "Padre Pio prega per noi".
Questo è stato il secondo tentativo di Cazzanelli e del suo team di salire la via in inverno, dopo averla provata in precedenza nel marzo 2021. In quell'occasione erano stati costretti a desistere in cima a Padre Pio (4.000 m), dopo aver affrontato temperature estreme, condizioni ghiacciate e 1 bivacco.
Quest'anno il team è riuscito a scalare in libera l'intera via in 3 giorni, con 2 bivacchi molto duri in parete, a 3.900 m e poi a 4.200 m.
Con temperature diurne di -10°C, che scendevano a -20°C di notte, il team ha affrontato condizioni difficili per completare la via di 41 tiri di pura roccia.
François ha commentato:
"Il momento più difficile è stato prima del primo bivacco perché abbiamo dovuto cercare il posto per dormire al buio e preparare tutto senza luce è davvero complicato.
Siamo davvero contenti, perché abbiamo aspettato tutto l'inverno l'occasione giusta per riprovare questo progetto.
Volevo davvero trarre profitto da questo inverno secco di diffuso e costante bel tempo per completare un grande progetto e sono felice che sia stato sulla mia montagna di casa, il Cervino.
Siamo tutti entusiasti di aver ripetuto questa incredibile via nella stagione fredda. Un'altra fantastica visione del grande Patrick Gabarrou".
Ph Lorenzo Belfrond Photographia per Grivel.
Prodotto preferito Grivel: North Machine Carbon.
"Sulle Grandi Montagne è fondamentale avere attrezzatura affidabile. Se vuoi
andare più in alto e oltre, ti serve dell’attrezzatura che possa lavorare duramente quanto te." Nimsdai 'Nims' Purja.
Siamo orgogliosi di annunciare la nostra nuova partnership con Nimsdai "Nims" Purja e la sua agenzia Elite Exped. Molti dei nostri prodotti sono già stati utilizzati da Nims e dal suo team durante il loro Project Possible nel 2019 e la prima salita invernale del K2 nel 2021.
“È un grande onore per noi unire le forze con qualcuno che sta ridefinendo i limiti con determinazione e mentalità positiva, ma soprattutto qualcuno che è un vero montanaro, proprio come noi”. Oliviero Gobbi – Amministratore Delegato Grivel
#GrivelToEachTheirOwn
Oliviero Gobbi, CEO Grivel, e Nimsdai ‘Nims’ Purja, ph Lorenzo Belfrond
Nimsdai ‘Nims’ Purja, ph Sandro Gromen-Hayes, © Nimsdai.
NIMSDAI ‘NIMS’ PURJA è un alpinista nepalese che ha collezionato molti record mondiali. Nel 2019 ha scalato tutti i 14 ottomila in un tempo record di sei mesi e 6 giorni. Nel gennaio 2021, insieme alla sua squadra, ha completato la prima salita invernale del K2. Il suo film "14 vette: scalate ai limiti del possibile" è ora disponibile su Netflix.
GRIVEL. Creiamo attrezzatura tecnica di alto livello per condividere la nostra
passione per la montagna, con stile e amore per il nostro pianeta. Dal 1818.
Vogliamo che le persone trovino e scalino le proprie montagne, perché possano conoscere molto di più del mondo e di sé stessi.
Siamo vicini a chiunque voglia raggiungere una cima e realizzare il proprio sogno individuale. A ciascuno il suo ("To each their own").
Per maggiori informazioni su Nirmal e i suoi progetti:
https://www.nimsdai.com/
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Il racconto dedicato a Walter Bonatti e al suo lascito alpinistico e letterario parte da un evento, debitamente romanzato, che ha come sfondo la Polonia degli anni ‘80 e le condizioni di vita in un Paese al di là della Cortina di Ferro e dove anche solo trovare le informazioni o poter avvicinarsi “alle fonti” poteva essere un problema. L’andare a saccheggiare o taccheggiare una biblioteca, atto di per sé più che esecrabile, poteva essere all’epoca una ultima spes per chi bramasse la conoscenza, oppure anche uno dei vari gesti di insofferenza e ribellione silente verso il regime da parte di una popolazione storicamente indomita e poco propensa ad avere figure di comando che non fossero proprie. In quella cultura ed in quella società è cresciuto Marek Regan Raganowicz, che nei suoi racconti tanto ama fare riferimento al periodo della sua crescita ed alle amate contraddizioni dell’adorata terra natia.
Traduzione dal polacco ed editing di Luca Calvi
Lo sguardo della bibliotecaria non tradiva alcun interesse per quello che stavo facendo tra gli scaffali. Ero libero di passeggiare tra libri di arte culinaria, racconti fantastici di robot, gatti parlanti o fagioli danzanti. Feci una pausa e diedi un'occhiata, di mala voglia, a biografie di criminali, di sognatori caduti e ad uno scaffale speciale con biografie di comunisti di spicco che avevano cambiato il mondo in peggio. In realtà non ero interessato a nessuno di quei soggetti e alla fine mi diressi verso lo scaffale che riportava all’inizio la scritta “Letteratura di Montagna”. Per non farmi beccare presi il ponderoso trattato “Lenin sui Tatra” e, fingendo interesse, sfogliai alcune pagine. La bibliotecaria sollevò gli occhi dal libro al quale stava incollando alcune pagine gialle con annotazioni e quando la vidi abbassare nuovamente gli occhi raggiunsi subito il libro che avevo scelto e lo nascosi in un millesimo di secondo sotto la giacca, fingendo di continuare a leggere le avventure di Lenin. Il libro che tenevo al petto mi bruciava come un mattone incandescente. Sentii che stavo sudando e che dovevo uscire. Corsi così fuori dalla biblioteca o meglio dalla scena del crimine e non mi fermai fino a quando non arrivai a casa.
Fu quello il modo in cui rubai una copia de Le mie montagne di Walter Bonatti, un libro che non veniva più ristampato da anni ed era impossibile da trovare nei negozi di antiquariato. Non potevo immaginare di vivere senza poterlo consultare ogniqualvolta lo desiderassi, quindi quel libro in un certo qual senso era mio ed era lì ad aspettarmi. Dovevo averlo, proprio come si deve avere una pianta di una città quando si vuole arrivare a destinazione e non perdersi in vicoli ciechi. Avevo letto Le mie Montagne diverse volte prima di decidere di rubarlo. Mi aveva mostrato un'arrampicata che non avevo conosciuto prima: solitaria, personale, addirittura intima. A tutt’oggi non ho confessato quel furto e probabilmente non lo farò mai, ma guardando indietro posso vedere che in qualche modo ho fatto di tutto per cercare di espiare quella trasgressione. Sentivo il suo fuoco sia come un rimorso bruciante sia come una sfida o un obbligo di ripagare un debito. Mi sentivo colpevole per aver privato altri dell'opportunità di entrare in comunione con Le mie Montagne e di trarne ispirazione. Volevo dare qualcosa di me stesso e condividerlo come faceva Walter.
Alcuni libri riportano al passato, raccontano storie che gli autori vogliono tirar fuori da sé stessi ad ogni costo, senza pensare troppo al lettore. A volte ho l'impressione di offrire anch'io questo tipo di storie, raccontate, per così dire, per la mia purificazione personale, storie che forse sono inutili per i lettori.
Altri libri, poi, colpiscono nell’animo e portano a vivere nel mondo dell'autore. Lasciano senza fiato, ma costringono anche a staccarsi e a vivere la propria vita, a seguire la propria strada, la cui ricerca è una sfida a parte ispirata dall'autore. Le mie Montagne mi ha scosso e mi ha costretto ad affrontare il mistero del futuro, l'ignoto, l'avventura e il rischio. Mi ha aperto gli occhi sulla strada che poi ho voluto seguire con curiosità sfrenata e passione selvaggia.
Ad affascinami, in primis, fu la descrizione della montagna, della sua forma svettante come in una favola popolata di scalatori coraggiosi e pareti insormontabili, impressionanti, selvagge e imprevedibili. Mi piacque come, nei passaggi iniziali del capitolo, Walter abbia reso omaggio ai primi conquistatori della cima stessa, così come agli autori delle vie sulle pareti nord e ovest. Questo me lo fece vedere un uomo estraneo alle categorie della rivalità feroce alimentata dal desiderio di promuovere il proprio ego. Aveva descritto la sua ossessione e i suoi tentativi di scalare il Pilastro Sud, una volta con Mauri e due anni dopo, tornato da una spedizione traumatica alla conquista del K2, stavolta con una squadra di quattro persone, con il suo precedente compagno più Oggioni e Aiazzi. Purtroppo il tempo e le difficoltà li avevano ricacciati indietro dalla parete.
Leggendo questa storia di tentativi falliti che portano alla vittoria, mi sarei aspettato di veder apparire qualcuno di speciale, come succede nelle favole, quando l'eroe perde l'entusiasmo e la fede ed improvvisamente arriva qualcuno che riaccende la fiamma della battaglia e porta alla vittoria. Con mia sorpresa, a pagina 100, dopo essere andato a capo, lessi invece quel passo che in seguito mi sarei ripetuto molte volte e che avrebbe continuato a tornarmi in mente durante i miei anni di arrampicata in solitaria e che recitava pressappoco così:
“Finalmente ci fu una svolta. Un giorno, come un'idea folle nata dalla depressione mentale, fui preso dal pensiero di tornare sui Drus, questa volta da solo, per provare a me stesso che non ero un uomo finito.
Passarono i giorni e quella che avevo definito un'idea folle si trasformò gradualmente in un raggio di speranza e di fede. Presto mi trovai a vivere solo con il pensiero di fare una salita in solitaria sui Drus".
Capii così che la vera sfida di una parete non sta nel mettere assieme una squadra più grande, partner migliori o usare attrezzature più sofisticate o invasive; è invece una questione di testa, di atteggiamento, di determinazione e di comprensione del fatto che le pareti e le vie sono scritte in noi in attesa del momento in cui siamo pronti ad affrontarle. Non c'è nulla di quell'ostilità, di quelle battaglie o di quell’odio che ci portano spesso a paragonare l'arrampicata ad una azione di guerra. La chiave è data dalla consapevolezza, dalla forza interiore e dalla purezza dello stile. Volevo fare questo tipo di scalate e credevo profondamente che questa sarebbe stata la mia strada in montagna.
Solo oggi capisco che per molto tempo le mie scalate successive furono una serie di richiami allo stile dell’ascensione in solitaria del pilastro sud-ovest del Drus e a piccole storie di quella salita.
Io però avevo iniziato ad andare per monti ben 30 anni dopo i maggiori successi di Bonatti, quindi mi trovai anche costretto ad aprire gli occhi sui cambiamenti dell'etica e accettare l'allentamento di quelle regole che il Maestro si era impegnato a rispettare. Descrivendo la salita solitaria sul Drus, aveva spiegato che forare la roccia voleva dire uccidere il concetto di "impossibile" e quindi minare il senso dell'alpinismo. Per quanto fossi d'accordo con l'idea e la sua successiva elaborazione nel famoso articolo di Messner “L'Assassinio Dell'Impossibile”, non riuscivo a fare a meno di ripetere le vie a spit e di rimanere affascinato dalle imprese dei maestri della New Wave dell’arrampicata artificiale nella Yosemite. Quando poi iniziai a ripetere le loro vie di artificiale estrema mi resi conto di quanta determinazione, pagata con il massimo rischio, dovessero avere per ridurre al minimo le perforazioni. Così, in buona sostanza, avevano mantenuto il rispetto del principio di Bonatti secondo il quale il senso dell'alpinismo sta nel mantenere un equilibrio tra l'uso di attrezzature invasive e la forza della mente.
Ogni volta che salgo El Capitan mi torna in mente Bonatti, e non solo per la sua etica rigorosa, ma anche per il mio passo preferito in cui descrive i momenti drammatici in cui ha dovuto buttare via del cibo inzuppato di benzina: "Tutto quello che mi era rimasto erano due pacchetti di biscotti, un tubo di latte condensato, quattro formaggini, una scatola di tonno, una scatola di paté, dello zucchero e della frutta secca, una fiaschetta di cognac e due lattine di birra". Proprio questi ultimi due prodotti catturarono la mia attenzione e mi ruppero l'immagine monolitica del Gran Maestro, che nella sua severità di principi rifiuta le tentazioni degli stimolanti. Chi mi conosce sa che non sono un grande fan delle bevande alcoliche, ma ad ogni salita su El Capitan, seguendo l'esempio del Maestro e coltivando la sua memoria, ho sempre con me due lattine di birra.
All'epoca in cui leggevo libri sull'arrampicata, negli anni '80, i polacchi stavano iniziando l'era delle prime salite invernali sugli Ottomila. La grande prima fu l'ascensione dell'Everest, che fu ampiamente coperta dai media e di cui si parlava nei club di arrampicata locali. In quel periodo ero agli inizi del mio viaggio verso le montagne e mi stavo chiedendo da che parte andare. Avevo dato un'occhiata all'arrampicata himalayana, ma mi sentivo decisamente più attratto dalle grandi pareti rocciose scalate in piccole cordate. Certo, le facce sorridenti di chi arriva in cima alle vette himalayane sono ispiratrici e allettanti, ma dopo aver letto Le mie Montagne compresi che a volte dietro a quei sorrisi c’erano esperienze simili a quella vissuta da Bonatti sul K2, piene di delusioni, disappunto o di palese egoismo tali da minare la fiducia nella collaborazione tra compagni. Non avevo la minima intenzione di fare quel tipo di esperienze in montagna e così decisi di stare lontano dalle spedizioni con tanti partecipanti sotto i vessilli di stato associate a nobili slogan conditi di retorica marziale. Nel capitolo sul K2 avevo trovato una descrizione della disperazione e della lotta per la vita dettata dal pericoloso egoismo dei compagni. Pensavo che dopo una tale esperienza Bonatti non sarebbe più tornato sull'Himalaya, ma mi sbagliavo. Infatti ci andò di nuovo, ma questa volta cambiando stile. Con una squadra più piccola andò a scalare la Montagna di Luce, il Gasherbrum IV, assieme a Carlo Mauri, portando a termine una salita che potrebbe certamente essere considerata oggi come una delle prime ascensioni in stile alpino in alta montagna.
L'ultimo capitolo del libro, che racconta i tragici eventi del Pilone del Freney, lascia il lettore di fronte alla grande domanda se continuare o meno a scalare. Dopo aver vissuto la morte di quattro compagni a chiunque passerebbe per la testa l’idea di mollare tutto, ma l’Autore, pur continuando a scalare, si guarda bene dal dare una qualsiasi indicazione su quale possa essere la via giusta o sbagliata da seguire. A darsi la risposta alle domande fondamentali sul senso del rischio e delle scalate dovrà essere il lettore stesso. Walter, dopo la tragedia sul Freney, ha continuato a scalare, il che per me, giovane lettore all'inizio della propria carriera, era qualcosa di ovvio, tant’è che immaginavo che se fossi stato nei suoi panni avrei preso una decisione simile. Meno di 10 anni più tardi, con le mie esperienze personali alle spalle, mi ero già reso conto che risolvere tali questioni è molto più difficile di quanto potevo pensare leggendo quel libro.
Alcuni anni dopo aver letto per la prima volta Le mie montagne mi giunse notizia che Walter aveva abbandonato l'arrampicata agonistica. Ciò avvenne molti anni dopo il fatto, ma a quei tempi le informazioni da dietro la cortina di ferro arrivavano in Polonia con un notevole ritardo. Lessi che dopo aver aperto una via nuova in solitaria sulla parete nord del Cervino in inverno Bonatti si era ritirato. Non avevo mai avuto modo di conoscere la descrizione di quest'ultima salita, quindi me lo immaginai scendere dalla vetta dopo uno sforzo spaventoso, camminare fino alla stazione di Zermatt, prendere il treno per scendere a valle e lasciarsi tutto alle spalle in modo del tutto anonimo per andare a confondersi con la folla di turisti che non avevano la benché minima idea della sua impresa. Chissà, magari mentre era ancora in città o da qualche parte sotto le pareti forse aveva lasciato il suo zaino. Mi immaginavo quel suo borsone di tela, simile a tanti altri, divenuto unico per essere stato lasciato da Bonatti lì, in attesa che qualcuno lo raccogliesse e continuasse lungo quel cammino.
Di certo la sua ultima salita fu un'impresa che superò tutte le realizzazioni di un'intera generazione e ancora oggi è possibile considerare quella del 35enne alpinista bergamasco come una delle più eccezionali gesta dell'alpinismo in toto, non solo di quello solitario. All'apice della sua fama, riuscì a dire basta, dedicandosi al giornalismo, alla scrittura e ai viaggi di esplorazione.
BIO
Nato nel 1961 a Szczecin (Stettino), in Polonia, ai piedi dei Monti Tatra e cresciuto come alpinista nelle Alpi e in Himalaya, ha scoperto le sue vere passioni, arrampicarsi in solitaria e su grandi pareti, nella Yosemite Valley. Affascinato dall’arrampicata in ogni suo aspetto e fedele al suo ideale di clean climbing (no chiodi, no spit, nessun supporto da altre persone, ecc.), tra le sue ascensioni spiccano la prima solitaria di Secret of Silence (VI/A4), versante nord del Ship’s Prow, Isola di Baffin, Canada; la prima solitaria di MantraMandala (VI/A3+), versante orientale del Ship’s Prow; la prima solitaria invernale dell’SG Harryland (6/A3), Troll Wall, Romsdal, Norvegia; la solitaria di Plastic Surgery Disaster (A5/5.9), El Capitan, Yosemite, California; la prima di Katharsis (VI/A4/M7), Troll Wall, Romsdal, Norvegia; la solitaria di Surgeon General (A5/5.9), El Capitan, Yosemite, California; la prima ascensione di Bushido (VII-/A4/VII-), Great Trango Tower, Karakorum, Pakistan e di Superbalance (VII/A4/M7+), Polar Sun Spire, Isola di Baffin, Canada. Lavora come ingegnere su piattaforme oceaniche ed è prolifico autore di libri di successo negli ambienti alpinistici e letterari polacchi.
Marek Raganowicz
Come alpinista, sono nato sui Monti Tatra polacchi, poi sono cresciuto tra le Alpi e l'Himalaya. Il mio vero amore è l'arrampicata in solitaria e big wall, che ho iniziato a fare in Yosemite. Non mi limito a scalare grandi pareti, mi muovo e ci vivo, respirando il loro ritmo. L'arrampicata mi affascina; l'intensità dell'esperienza, la varietà della natura sul fianco della montagna, le sfide, la solitudine, le amicizie e il modo in cui le persone possono essere vinte dalla passione e dalle avventure dell'arrampicata.
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Ehi ehi! Fu in un giorno di foehn che sradicava gli alberi che iniziai a scrivere le nostre avventure
Il momento giusto non sai mai quando accadrà.
Quanto al lavoro ne avevo: era per fare super alpinismo.
Armati della nostra attrezzatura fatta interamente di punte d'acciaio affilate, forgiate potentemente, mai rompibili, nel peggiore dei casi deformabili a contatto con una roccia nascosta sotto la parte ghiacciata, il nostro eterogeneo trio aveva deciso di andare in un paese lontano. Laddove guardare le cime ti dava il torcicollo, non potevi più distogliere lo sguardo dall'alto.
Si chiama Karakoram, è un luogo eccezionale, se ci fosse un solo premio per una meraviglia naturale, sarebbe la Valle dell'Hunza a vincere questo premio, unanimemente dalle Nazioni Unite.
I nostri alpinisti non si accontentano di torcere il collo, ma anche di scioglierlo scalando queste maestose vette di 7000 metri e oltre, per guardare la valle dall'alto.
Sapendo questo, Helias Millerioux, Patrick Wagnon ed io siamo andati in Pakistan l'estate scorsa, senza un soldo, dopo questo anno terribile che ha rallentato il mondo, fermando persino le attività di tutti, un po' come i nuovi arrivati nel racconto di Lewis Carroll "Alice nel paese delle meraviglie" dove ogni montagna è un magnifico regalo, un gioiello per noi himalayani.
Dopo aver conosciuto questi magnifici gioielli, tutti vestiti di neve e rocce, è difficile non tornarci per assaporare il sapore squisito di queste alte vette. Così è stato, eravamo in un parco divertimenti illimitato per alpinisti quali siamo.
È certo che questo genere di giochi richiede un certo impegno, sì rischiare la vita a volte è necessario ma le cose belle non accadono da sole.
Dapprima siamo andati sul versante meridionale dello Shishpare, una vetta a 7600 che si trova non lontano da Karrimabad, il pastore locale che ci mostra la strada su questo ghiacciaio frantumato. Un grande aiuto. Verdetto finale: il versante meridionale dello Shishpare, quello che avevamo sognato da alcuni mesi si è rivelato veramente spietato. Impossibile immaginare una via in mezzo a decine di gigantesche valanghe avvenute nell'arco della giornata!
PRIMA PARTE
Naufragato il nostro obiettivo principale, abbiamo ricominciato da zero: andare ad acclimatarci sul Diran Peak a 7260 m, pianificando in modo specifico la salita della cresta nord da lì.
Conoscevo il posto per esserci stato alcune volte. Un accesso veloce, un giorno, ed eccoci in un prato fiorito a 3600m di quota circondati da mucche e yak messi al pascolo per l'estate.
Il nostro cuoco e la sua calda tenda da mensa ci aspetta lì con i facchini del villaggio. Una volta pagato i facchini, questi vanno via e rimaniamo soli. La cresta nord del Diran è complicata, la neve ancora molto abbondante all'inizio di giugno non facilita l'impresa. Avevamo degli sci, attrezzi indispensabili in questo periodo dell'anno. Ciò che ci sembrava così semplice da realizzare, ha impiegato un mese per compiersi ed è stato in extremis, in una finestra di tempo molto breve, che siamo riusciti nel nostro progetto. Non c'è mai stato più di un giorno e mezzo di bel tempo consecutivo, rovesci di neve e temporali che si susseguivano durante i momenti di sole splendente oppure per tutto il giorno, impossibile avere una buona visibilità e poter anticipare eventuali salite, impensabile salire più in alto soprattutto a causa delle quantità di neve instabile che voleva solo sgretolarsi sotto i nostri piedi.
I tre personaggi di questa telenovela himalayana si sono anche concessi il lusso di tornare al villaggio della valle per qualche giorno a riposare mangiando ciliegie, spiedini di carne e l'esclusivo cibo Hunza dove l'olio di semi di albicocca insaporisce tutti i piatti.
Al campo base, con Jan, il nostro cuoco e compagno di squadra indispensabile al buon successo di una spedizione in questi luoghi remoti, ci prendevamo uno o due giorni di riposo ad ogni occasione di tempo incerto. Il signor Millerioux si è divertito a costruire una diga sul torrente che scorreva accanto al nostro campeggio. Mi chiedevo quale fosse lo scopo del suo mini laghetto, finché non si è rivelato il mezzo ideale per i nostri bagni tonificanti e per lavare i panni!
Avreste facilmente potuto pensare che fossimo Spongebob, Hello Kitty e Iceman, felici, in armonia, che oziavano armoniosamente in questa strana atmosfera.
Iceman ha pensato anche nei suoi momenti di gioia più folli, di venire a studiare questo ghiacciaio in modo che non avesse più segreti per lui; questo era anche il suo lavoro: studiare i ghiacciai.
La felicità c'era ma nascondeva qualcos'altro, la pressione fondamentale che precede ogni salita e le domande che la accompagnano: ci saremmo arrivati? e i rischi da correre non saranno troppo alti?
Tempo di brainstorming nella tenda della mensa.
"Hello Kitty alias Helias, sei operativo? Non troppo stanco per il mese passato a fare avanti e indietro in montagna?" "No ragazzi" mi ha risposto quando gli ho fatto la domanda. Quanto a Patrick/Iceman, lui era più indistruttibile che mai, era nel suo mondo e tutte le montagne circostanti erano montagne russe da esplorare. "E tu Yannick/ Spongebob, sei motivato?" Avendo esagerato con aperitivi e pasti gourmet prima della partenza, ero in sovrappeso di qualche chilo e trascinavo costantemente la zampa dietro le altre. "Andrà tutto bene, queste tre settimane di allenamento mi hanno rimesso in piedi".
La squadra selvaggia era pronta.
Quattro giorni erano il tempo che ci eravamo dati; non avevamo altra scelta perché quella era l'unica finestra di meteo accettabile.
Nel bel mezzo di una notte di metà luglio, con le stelle che brillavano nel firmamento, i tre amici sono partiti per raggiungere la loro grotta di ghiaccio a 5400 m di quota per trascorrere la notte successiva, la prima!
La chiave del successo passava intorno ai 6000 m lungo un terrificante attraversamento di 200 m di giganteschi flauti di ghiaccio sospesi nel vuoto, che cadevano sul ghiacciaio del versante occidentale della cresta.
"Helias stai andando dalla parte sbagliata!" "Non è così!" ha ribattuto: aveva immaginato che fosse possibile sfuggire a questo difficile passaggio sul versante est che non vedevamo dal CB.
"Ora tocca a te!" E ho attaccato, sprofondando fino allo stomaco, nella neve quasi verticale per attraversare un punto dove la vetta sarebbe stata in vista e quindi immaginabile. Patrick mi ha raggiunto dopo alcune ore intense e si è precipitato al bivacco, poco prima del buio, il tempo era bello.
Era un bivacco angusto, uno russava, l'altro scoreggiava e il terzo non dormiva.
D-day. "È ora ragazzi, dobbiamo partire all'alba, il risveglio è sempre difficile quassù!" E ci aspettano 1200 metri in un terreno sconosciuto.
Il tempo è bellissimo e ci muoviamo dolcemente su neve abbastanza alta con la ferma speranza che prima o poi la neve si rassodi, sbagliando però: la neve rimarrà molto molle.
Più in alto andiamo più lentamente andiamo, l'equazione fondamentale di ossigeno rarefatto e fitness!
Arriviamo in vetta verso le 15! 10 h per fare 1200m dal nostro ultimo bivacco dove abbiamo lasciato tenda e sacchi a pelo.
Così arriva il momento di scendere, è ora che il tempo inizia a peggiorare, e gigantesche nuvole grigio nere invadono le montagne. Inizia subito a nevicare e il vento si alza, è ora di accelerare il passo per raggiungere il prima possibile il nostro rifugio a 6050m. Le tracce della salita scompaiono e tagliamo direttamente, installiamo una doppia su un fungo di neve per attraversare un crepaccio, una breve schiarita ci permette di ritrovare le nostre tracce e vediamo il nostro accampamento. Sfiniti, disposti male nella nostra minuscola tenda, ci approcciamo a una notte con il brutto tempo che arriva.
Patrick esordisce -"Ehi Yannick, non hai paura? Come faremo domani se nevica tutta la notte? Ma io dormo, stremato dalla giornata, non ho tempo per preoccuparmi di niente. Helias sembra preoccupato ma non dice una parola.
Dobbiamo ripartire presto! Sappiamo che sarà lunga, dobbiamo fare questa maledetta traversata di flauti di ghiaccio, che ci impedisce una discesa più serena verso la cresta che ci riporterà sul ghiacciaio. Per la gioia del nostro trio, dopo essere usciti sotto la neve che cade, il cielo si schiarisce e presto il sole torna a splendere e il ghiacciaio e il piano finalmente si avvicinano.
Alla fine del pomeriggio sfiniti ma felici ci uniamo agli sci, perdiamo altri 1000 metri velocemente e troviamo il nostro caro 4° membro della squadra selvaggia, Jan, il nostro cuoco e manager del campo base, che ci viene incontro carico di cibo. Spongebob, Hello Kitty e Iceman, il nostro comico e improbabile trio, lo ringraziano per il suo prezioso supporto.
Tornati nella valle dell'Hunza all'hotel a Karrimabad, abbiamo una stanza ma con solo 2 letti e il tiro a sorte costringe uno a dormire su un materasso per terra. Carichi di fatica, ci riposiamo bene.
Dopo qualche momento di riposo abbiamo pensato al resto del viaggio.
Torneremo subito indietro? O ci imbarcheremo per un'altra salita? Le opinioni erano discordanti.
Io preferivo andare a casa ma gli altri due volevano restare a fare un altro giro in questo gigantesco luna park.
La discussione si chiude quando il bel tempo sembra essere dalla nostra parte.
SECONDA PARTE
Helias and Friends partono per un'altra straordinaria avventura: TOTALLY FUCKED ON RAKAPOSHI; ma qual era questa nuova attrazione?
Dopo aver perso un po' di tempo alla fine del mondo, un luogo oltre il quale nessuno voleva andare nonostante i nostri sforzi più persuasivi, SOST per la precisione, un villaggio sul confine pakistano-cinese ma che potrebbe essere anche fuori nel selvaggio West, ricco di ogni tipo di traffico tra i due paesi: esseri umani, animali dai polli ai cammelli e ogni tipo di cineseria. Dopo non essere riusciti a trovare un solo facchino disposto a portarci alla base della montagna che speravamo di scalare dal confine cinese, i nostri tre avventurieri si sono finalmente stabiliti a Rakaposhi a quasi 8000 m, con una sola foto presa da Internet come guida!
Il nostro progetto iniziale di approcciare la vetta dal confine cinese è fallito, nessun facchino vuole accompagnarci, chissà!
La finestra meteorologica era di soli 4 o 5 giorni, il che significa che dovevamo essere efficienti e che dovevamo arrivare rapidamente al campo base e aspettare 2 o 3 giorni nel maltempo per essere pronti al momento giusto.
Arrivando a 4000m a 1 ora dal CB abbiamo subito una grandinata e una pioggia gelata che hanno messo a dura prova la nostra mini carovana. Dopo 30 anni in montagna senza infortuni, voilà! Sono crollato sul ghiacciaio con una distorsione alla caviglia, rientrando al campo zoppicando. Mi stavo davvero ponendo delle domande, dicendomi che sarei tornato prima ancora di poter iniziare la salita, un pasticcio. I nostri tempi erano risicati, il nostro rientro era programmato senza alcun margine dopo la salita.... Con una fascia elastica e pomata antinfiammatoria mi sono buttato, con i miei amici, tutto stretto nelle mie scarpe da montagna, nella salita di questa vetta impressionante.
Di questa montagna non sapevamo nulla a parte un semplice schema su una foto aerea, sapevamo che sarebbe stata lunga e il percorso era solo parzialmente visibile; dove una classica spedizione si studia ai piedi della montagna per almeno un mese, noi abbiamo avuto poco meno di una settimana!
Questo significava che bisognava andare veloci durante la salita per fare grandi passi almeno i primi giorni. La mia caviglia si comportava abbastanza bene, anche se a volte con un forte dolore.
Siamo partiti perdendoci e per paura del rischio valanghe e di qualche distacco di massi con l'arrivo del sole abbiamo optato per la salita di uno sperone roccioso di 1000 m per raggiungere l'ampia cresta che ci avrebbe portato qualche km più avanti in cima.
1600 m di dislivello per raggiungere il bivacco quel giorno! Dal canto mio mi sentivo già un po' stanco, l'idea di scendere mi preoccupava.
Dopo la notte eravamo di nuovo tutti operativi, il nostro formidabile trio non si sarebbe fermato qui, anche se non sapevo se ce l'avrei fatta ad arrivare in cima! Comunque, a questa domanda non possiamo mai rispondere prima! Essendo i compagni di buona compagnia, ero disposto ad andare più in alto con loro.
Poi due bivacchi si sono susseguiti ma la sera ero ancora molto stanco della giornata, mi infilavo nel sacco a pelo senza fare altro.
A 6900 m alle 3 del mattino capitolai senza difficoltà di fronte alla mia forma trasandata e alla mia volontà ormai scossa, e mi decisi di aspettarli lì fino al loro ritorno.
Che notte magnifica vederli avanzare nella notte sotto questa luna piena, finché non li ho più visti a 7400 m. Ecco le loro parole relative a questo giorno, è il 26 luglio.
Helias
<Il sole sorge a 7400m, abbiamo fatto metà della strada. La gioia ci invade, siamo felici. Un eccesso di fiducia ci invade. Ci arriveremo! Facciamo una pausa per bere e mangiare. E vedo l'impegno che prendiamo. Entriamo nella quarta dimensione della nostra sfida.
Ci stiamo avvicinando alla vetta. La pressione sale, gli ultimi passi sono famigerati. Siamo ai piedi di una placca a vento 50m sotto la vetta. Sarebbe un peccato morire travolti da una placca a vento qui, Patrick mi spinge a tirare fuori la corda per tracciare la neve. È ragionevole, ha ragione. 13:30 siamo in cima, il Rakaposhi è formato da un filo di rasoio affilato dove il versante nord si tuffa nella valle del Karimabad non c'è proprio posto dove restare lassù. Tempo per stare 3 minuti e fare delle foto e siamo già ripartiti, i venti reclamano la nostra discesa>.
Yannick
Quanto a me, aspetto molto gentilmente in tenda mentre mi preparo qualcosa da bere e da mangiare, intervallo i miei pasti con lunghi sonnellini, approfitto di questo torpore che mi dà il caldo della giornata. Ancora non li vedo! Immagino il peggio, cerco di essere razionale ma è difficile.
Nella notte, dopo 20 ore da solo li vedo finalmente apparire, sono super lenti, quindi esco dalla tenda e cammino per 200 m per raggiungerli e congratularmi con loro, baciarli e dire loro quanto sono felice di vederli. Quanto a me, nessuna delusione semplicemente non era la mia giornata. Avrei potuto provarci ma ho preferito risparmiare energie per questa discesa il giorno dopo, che sarà lunga e complicata, tutti sono completamente straziati nella nostra minuscola tenda.
Yannick Graziani, nato nel 1973 a Cagnes-sur-Mer (Francia). Atleta Grivel da oltre 20 anni, è membro della Compagnie des Guides de Chamonix. Alpinista versatile, Yannick pratica arrampicata su roccia, ski touring, alpinismo classico e ha compiuto grandi spedizioni in territorio Himalayano.
Prodotto Grivel preferito: ramponi G22 Plus.
#GrivelToEachTheirOwn
*sottotitoli disponibili su Youtube in inglese, italiano, francese e tedesco.
“Puoi parlare in grande, puoi parlare davvero in grande di quello che hai intenzione di fare, ma quando cammini e vedi la cascata ghiacciata, allora devi agire, il discorso è finito!”.
Stevie Haston e l’evoluzione dell’arrampicata su ghiaccio e dell’attrezzatura per arrampicare su ghiaccio.
“Il modo in cui cerco di superare qualsiasi ostacolo nella vita, è scomporlo oggettivamente e pensare a cosa deve succedere un passo alla volta, e costruire su quello finché non sei dove devi essere”.
Arrampicata su ghiaccio e stile di vita secondo Alan Rousseau, guida alpina IFMGA e atleta Grivel in Utah.
Ezio Marlier, pioniere dell'arrampicata su ghiaccio in Italia negli anni '80/'90.
"C’è una specie di bolla in cui riesco a trovare degli equilibri, soprattutto mentali. Io questo senso di torpore lo trovo nel ghiaccio perché è una materia in cui oggi riconosco il grande alpinismo che probabilmente facevano quelli prima di me, una materia molto fragile, una materia in totale trasformazione, sempre".
Stéphane Benoist, l'alpinista francese con un'ardente passione per il ghiaccio d'alta quota. “Non si tratta sempre di rimanere ancorati alla tecnica, all'andare sempre più veloce, fare vie sempre più dure, ma a volte bisogna cercare di avere uno sguardo un po' trasversale, un po' diverso”.
Anna Torretta: l'anima del ghiaccio è donna.
Anna ci offre la sua visione, sfatando il mito che questa attività sia solo per uomini duri. Più che un gesto di forza, l'arrampicata su ghiaccio richiede tecnica e ancor più passione per l'elemento naturale, vibrante, mutevole.
Se l'arrampicata su ghiaccio è come la conosciamo oggi, è grazie alla visione di alcuni pionieri come Walter Cecchinel che ne hanno rivoluzionato la pratica.
Markus Pucher racconta cosa sono per lui l'arrampicata su ghiaccio e il free solo: motivazione, concentrazione, solitudine e sentimenti contrastanti che lo plasmano e lo guidano in un gioco intimo con la natura. Buona visione!
Christophe Moulin: “Un giorno c'è tutto riunito, hai il livello, hai la buona attrezzatura, hai buone condizioni, e inoltre hai il fotografo che fa la foto del secolo perché è la foto che ha segnato credo generazioni e generazioni di alpinisti”. Buona visione!
Steve House: Il ghiaccio è emozione, l'arrampicata su ghiaccio è meditazione. Buona visione!
Hervé Barmasse: "Il ghiaccio come avventura e come elemento chiave delle montagne di tutto il mondo". Buona visione!
Barry Blanchard:"Non deve essere divertente per essere divertente". Buona visione!
François Cazzanelli: Il ghiaccio come fantasia creativa, vedere una linea e sforzarsi di scalarla. Buona visione!
Thierry Renault: Il ghiaccio come iniziazione e ricerca di se stessi. Buona visione!
Aaron Mulkey: L'arrampicata su ghiaccio come esplorazione e ricerca dell'ignoto! Buona visione!
Thomas Bubendorfer: Arrampicarsi è come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quale ti capiterà! Buona visione!
Angelika Rainer: l'arrampicata come crescita personale, dalle gare ai viaggi in giro per il mondo. Buona visione!
Il ruolo del ghiaccio, dal plasmare le nostre montagne a una disciplina di arrampicata a sé stante. Enjoy!
Lo scorso ottobre Marcello Bombardi ha liberato “La Cura”, un tiro di grado 9a a Ollomont (Italia), chiodato da Massimo Bal.
Dopo 7 giorni di prove e tante cadute all'ultimo passaggio è riuscito a chiudere il concatenamento: 30 passaggi senza soste su parete leggermente strapiombante, in una bellissima location.
#GrivelToEachTheirOwn
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Una carriera incredibile che decise di concludere nel 1965 con eleganza e stile.
Il 1965 è l'anno del centenario della prima salita del Cervino ed è su questa montagna che Bonatti ha scelto di salutare il Grande Alpinismo.
A febbraio, per 4 giorni, ha tracciato lì una nuova via, proprio al centro della parete nord.
Al suo ritorno a Zermatt, è stato intervistato da un giornalista di Radio Télévision Suisse. Un'intervista geniale dove, anche dopo 5 bivacchi, la classe e il carisma del grande Walter irrompevano sullo schermo.
A fine ottobre 2021, con Aurelien Vaissière e Fanny Schmutz, tornavamo dal Nepal dove avevamo provato a scalare il pilastro nord di Chamlang.
Delusi ma acclimatati, abbiamo approfittato di una bella giornata autunnale per salire questa via leggendaria.
Oggi siamo molto distanti dall'approccio di Bonatti. Anche se la via da lui tracciata rimane una grande corsa, è percorsa molto spesso quando è ricoperta di ghiaccio... Condizioni che consentono una scalata giocosa, piacevole e sicuramente più veloce.
Nelle foto d'epoca si vede chiaramente la parete nera del Cervino, quasi priva di ghiaccio: durante l'apertura, Bonatti ha dovuto scegliere condizioni più asciutte per potersi "assicurare" e piantare qualche chiodo nella roccia marcia della parete nord.
Dopo la nostra salita, mentre scendevamo tranquillamente a Füri, dove le rocce e la neve lasciavano il posto alla vegetazione, ho cercato di immaginarmi in questa via, da solo, con l'attrezzatura del 1965... ho provato a immaginare la complessità di assicurarsi, da solo, nella "traversata degli angeli", per orientarmi in questo muro austero... Poi la mia mente vagava e, per associazione di idee, mi immaginavo a Les Drus nel 1955 e infine al K2, senza ossigeno a più di 8000 m, cercando la tenda dei miei compagni.
Poi sono tornato con i piedi per terra, sul sentiero pacifico che mi ha riportato alla civiltà e ad un buon rösti!
Un rösti gustato davanti all'austera parete nord del Cervino, dove uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi aveva deciso di inchinarsi…”
Articolo e fotografie di Damien Tomasi.
Altre foto: Lorenzo Belfrond per Grivel e archivio Grivel.
Video: RTS.
Questi i numeri della spedizione polare compiuta da Vincent Colliard e Caroline Coté attraverso l'isola di Spitsbergen nell'arcipelago delle Svalbard, durante l'inverno 2021.
]]>Era il 2 febbraio 2021 quando io e la mia compagna, Caroline Côté, adventure filmmaker e atleta di ultramaratone, siamo partiti per una traversata invernale molto impegnativa sul vasto e aspro territorio delle Svalbard. Per più di 2 mesi, attraversando oltre 1100 km ed essendo autosufficienti al 100%, abbiamo dovuto sfruttare i nostri massimi livelli di resistenza e perseveranza per raggiungere l'obiettivo che ci eravamo prefissati.
Il nostro intento: compiere la prima spedizione che attraversasse l'isola principale di Spitsbergen, da nord a sud durante il picco dell'inverno polare. Partendo dalla cittadina di Longyearbyen, che sarebbe stata anche il nostro punto di ritorno, abbiamo scelto di evitare l'ausilio di qualsiasi mezzo a motore per raggiungere l'estremo nord dell'isola, partendo con gli sci. Questa è stata una spedizione straordinaria con il rischio di mettere in pericolo le nostre vite e, a sua volta, l'amore che ci unisce!
Caroline ed io ci siamo conosciuti durante una spedizione sciistica in Antartide. Caroline era la regista e io la guida. Una sera tardi, mentre gli altri partecipanti dormivano, ci siamo ritrovati insieme, soli fuori dalla tenda. Seduti in mezzo alle montagne glaciali della Penisola Antartica, di fronte al Pacifico, abbiamo condiviso una sigaretta e abbiamo deciso di unire le forze!
Longyearbyen, la capitale amministrativa delle Svalbard, e la città più a Nord del mondo, sarebbe stata il punto di partenza. Dopo aver ritirato le consegne dell'ultimo minuto, lasciamo la civiltà e ci tuffiamo nella nostra grande avventura di 63 giorni, trainando due slitte ciascuno, del peso di oltre 290 kg.
Eravamo pronti per incontrare il "Re delle Svalbard", l'orso polare. La possibilità era alta poiché le Svalbard ospitano circa 3.500 orsi polari, un terzo in più rispetto al numero di abitanti di questo arcipelago.
Avremmo incontrato anche la famosa ed emblematica renna delle Svalbard, insieme alla volpe artica che ora è purtroppo una specie in via di estinzione sull'isola. Avremmo viaggiato nel cuore della notte polare in compagnia solo l'uno dell'altro, facendo affidamento sui nostri strumenti di navigazione per progredire, sulla luna e sulle stelle nelle notti limpide e sui raggi delle nostre frontali.
Sapevamo che la scarsa visibilità durante le notti polari poteva essere una sfida continua e che alla fine, con l'avvicinarsi del mese di marzo, la luce sarebbe tornata e ci avrebbe guidato a sud, possibilmente sotto i raggi del sole finalmente tornato.
Quest’itinerario, di oltre 1000 km, non è stato esente da numerose sfide che abbiamo dovuto superare!
Molteplici e diverse emozioni ci attraversavano. Ma si trattava di metterle da parte e rimanere concentrati sull'obiettivo giorno dopo giorno e cercare di usare sia la paura che lo stress nel modo giusto per trarne beneficio invece di subirlo.
In passato, l'Artico mi aveva insegnato ad adattarmi continuamente. Dalla pianificazione al meteo, la cosa più importante è essere flessibili e pronti al cambiamento. Avere questa mentalità mi permette di non essere sorpreso quando arriva un evento speciale, ma di prepararmi per questo.
Le notti polari lasciavano poco spazio all'errore. La possibilità di venire faccia a faccia con un orso polare era costante. Ci siamo imbattuti in due "Kings of Svalbard" durante la loro spedizione.
I venti imprevedibili e forti sul ghiacciaio e lungo i fiordi hanno fatto sì che le temperature si abbassassero drasticamente. La topografia dell'isola è cambiata in conseguenza del riscaldamento globale. Abbiamo scoperto che i ghiacciai meridionali sono disseminati di pericolosi crepacci in questo ambiente mutevole. La fame è stata una grande sfida durante la nostra traversata e ci ha perseguitato dall'inizio alla fine della spedizione. Abbiamo dovuto razionare il cibo per buona parte del nostro viaggio per arrivare al successivo pick-up point.
La penuria di cibo ci ha lasciato affamati e deboli verso la fine della spedizione e solo all’arrivo, posando lo sguardo sui nostri profili smagriti, ci siamo resi conto fino a che punto!
La nostra forza è scaturita dalla volontà di testimoniare la pura bellezza del mondo di ghiaccio che stavamo esplorando, dall'aurora boreale ai ghiacciai.
Raggiungere la punta meridionale di Spitsbergen, mezza giornata prima dell’inizio della primavera e realizzare la prima traversata invernale senza soste, con la mancanza di sonno e fame, è stato sicuramente memorabile. Mi sentivo orgoglioso, felice e incredibilmente forte nonostante lo stato di debolezza. E dovevamo ancora sciare per 250 km fino alla civiltà per completare il viaggio!
Il successo di questa folle spedizione è stato segnato da una celebrità norvegese, l'esploratore polare Børge Ousland. Da eroe a mentore, da compagno di spedizione ad amico, ho imparato tutto da lui. Al nostro ritorno alla civiltà, Børge era lì per salutarci e congratularsi personalmente con noi per la nostra impresa. Børge, con il quale avevo vissuto diverse spedizioni fino ad oggi, era interessato a conoscere tutti i dettagli della nostra avventura!
Cosa mi spinge a fare spedizioni polari non supportate nei luoghi più remoti della terra?
Stare in campo affrontando le sfide mi consente di migliorarmi come persona. Risolvere problemi e spingere me stesso al limite mi fa capire meglio cosa è importante nella vita. Possedere meno diventa la chiave per la felicità.
Mi piace anche la semplicità delle spedizioni. Sciare, mangiare, dormire e ricominciare. Prendere solo ciò di cui si ha bisogno per poter andare avanti e rimanere libero.
Ma c’è anche un altro aspetto che mi spinge ad andare nelle regioni polari, e a ritornarci, ed è legato all'ambiente. Comprendere il ruolo del ghiaccio sul nostro pianeta e vedere l'impatto umano su questi fragili ecosistemi mi porta a valutare attentamente le mie esigenze.
Negli ultimi 15 anni ho esplorato le regioni polari, il ghiaccio marino, i ghiacciai, le calotte polari e le montagne. Tutte queste avventure e il fatto di assistere all'accelerazione del cambiamento climatico alle alte latitudini hanno cambiato la mia mentalità. Tornare alla civiltà, mi aiuta quotidianamente a non consumare troppo tenendo a mente l’impatto umano.
Grivel è un'ispirazione importante per me. Non ci sono compromessi quando si tratta della qualità dei prodotti e delle loro funzionalità. Inoltre, il design pulito lo rende facile da usare. È così che penso quando pianifico una spedizione non supportata nell'inverno artico. Qualità, efficienza e semplicità. Quindi è davvero appagante collaborare con un marchio come Grivel che enfatizza i miei stessi valori!
Vincent Colliard, nato in Francia nel 1986, fa parte del Grivel team dall'inizio del 2020. È uno degli esploratori polari più esperti della nostra generazione, le sue numerose spedizioni includono l'attuale traversata delle 20 più grandi calotte polari della terra.
Prodotti Grivel preferiti: Mistral Harness, G10 wide crampons, Ghost Evo ice axe.
Arrampicata lungo le linee della storia.
Il 26 giugno 2021 Alessandro Zeni ed Enzo Oddo hanno ripetuto Digital Crack, una linea unica di 8a, situata su un monolite di granito rosso di 50 m nel mezzo dell'Arete des Cosmiques (zona del Monte Bianco), a 3800 m.
Alessandro Zeni ed Enzo Oddo non erano nemmeno nati quando Thierry Renault e Alain Ghersen hanno liberato Digital Crack nel 1990.
Goditi il nostro nuovo film in cui diverse generazioni si incontrano e condividono le loro opinioni.
Sottotitoli in francese, inglese e italiano disponibili su Youtube.
#GrivelToEachTheirOwn
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Siamo orgogliosi di presentare "VERDON - The show must go on", un film sull'evoluzione della mecca dell'arrampicata nelle parole di climbers di diverse generazioni.
Storia, aneddoti ed emozioni dagli inizi negli anni '60 fino ai giorni nostri, con uno sguardo al futuro.
Puoi definirti uno scalatore senza visitare il Verdon?
Siediti e goditelo!
Sottotitoli in inglese, francese e italiano disponibili su YouTube.
#GrivelToEachTheirOwn
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Cosa possiamo definire socialmente utile?
Gli scalatori potrebbero vederla diversamente! Bellezza, avventura, paura, giochi mentali… a ciascuno il suo!
Guarda il nostro nuovo video “Socialmente Inutile” - Socially Useless - il racconto di questa dura via (fino all'8b) in Val Masino, attraverso le parole di Simone Pedeferri, che ha effettuato la prima libera nel 2003, e Luca Schiera, che ha realizzato la seconda salita in libera il 25 maggio 2021.
]]>Cosa possiamo definire socialmente utile?
I climbers potrebbero vederla in modo diverso! Bellezza, avventura, paura, giochi mentali… a ciascuno il suo!
“Socialmente Inutile” è una via multi-pitch in Val Masino, aperta alla fine degli anni '90 in artificiale, poi liberata da Simone Pedeferri nel 2003. Luca Schiera ha effettuato la seconda salita in libera il 25 maggio 2021.
La via è dura (fino a 8b / 6c E7) e poco protetta, per lo più con materiale artificiale leggero.
Non perderti la loro storia nel video. Sottitoli in italiano e inglese disponibili su YouTube.
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Sono passate da poco le 18 del 20 agosto del 1940, quando un’ambulanza arriva in avenida Rio Churubusco nel sobborgo di Coyoacán a Città del Messico, e i soccorritori entrano in una casa che è una specie di fortezza sorvegliata da guardie armate.
Nello studio trovano un sacco di sangue ovunque, gente disperata, e un uomo ferito in modo gravissimo: la paletta di una piccozza da alpinismo gli ha sfondato l’osso parietale, ha lacerato le meningi ed è penetrata per parecchi centimetri nella parte destra dell'encefalo, restando incastrata.
C’è anche un altro ferito, meno grave ma comunque malconcio: è l’aggressore. La vittima che non ha subito perso i sensi ma ha avuto parecchi minuti di lucidità, nei quali ha cercato di difendersi nonostante fosse già semiparalizzato, lo ha azzannato alla mano, piantandogli i denti nella carne – un segno che porterà per sempre. Il tizio sanguina anche dalla testa, perché le guardie della casa, richiamate dall’urlo agghiacciante dell’aggredito, sono entrate nella stanza e hanno cominciato a colpire l’intruso con i calci delle pistole, finché l’uomo con il cranio sfondato dalla piccozza non ha ordinato loro di fermarsi, perché se lo uccideranno non si saprà mai chi è e perché è lì.
L’ambulanza trasporta entrambi i feriti all’ospedale Cruz Verde e l’attività al capezzale del moribondo – perché le sue condizioni appaiono subito disperate – è frenetica, con i migliori medici che si affannano per salvarlo, e un aereo pronto a partire dagli Stati Uniti, con un luminare della neurochirurgia a bordo. Quello non è infatti un paziente qualunque: è Lev Trotsky, l’ex comandante dell’Armata Rossa, l’eroe della rivoluzione e della guerra civile, adesso diventato la spina nel fianco di Stalin, che ha fatto il vuoto attorno al rivale, costretto a fuggire da un paese all’altro e inseguito da una condanna a morte emessa dal burocrate paranoico e spietato.
Trotsky, che nel 1927 è stato espulso dal comitato centrale del partito, è esule da dodici anni: è stato in Kazakistan, poi è andato in Turchia dove però a minacciarlo di morte ci sono i vecchi nemici di un tempo, gli irriducibili dell’Armata Bianca. È passato allora in Francia, dove è stato ammesso a condizione che si tenga lontano da Parigi, ma le pressioni di Stalin non sono cessate.
È stato poi accolto dalla Norvegia, ma anche da qui se ne è dovuto andare, dopo essere stato messo agli arresti domiciliari. Stalin non lo vuole così vicino ai confini, e per i governi ospitare Trotsky, l’eterno rivoluzionario, il condannato a morte in attesa di un’esecuzione che difficilmente scamperà, diventa sempre più rischioso e politicamente difficile.
Una mano amica gli è stata tesa, finalmente, dal Messico, unico Paese ancora disposto a concedergli un visto.
Il presidente Lázaro Cárdenas è un vecchio rivoluzionario e un riformatore, e ha accolto con piacere la richiesta del pittore comunista Diego Rivera: invitiamo Trotsky a stare da noi. Lo hanno fatto viaggiare in gran segreto su una petroliera, con il timore che la nave venisse fatta saltare con l’esplosivo o assaltata in mare aperto – ma è andato tutto bene, il 9 gennaio 1937 Trotsky e la sua famiglia sono arrivati a Città del Messico, qui hanno amici, ammiratori, gente pronta a difenderli.
Adesso però Trotsky è morente nel letto d’ospedale. L’operazione chirurgica per quanto tempestiva non è servita a nulla, la paletta della picca (Trotsky è stato colpito con un attrezzo austriaco prodotto a Fulpmes, nello Stubai, alla fine degli anni Venti: è una piccozza moderna, in possesso del misterioso assassino che sostiene di essere un valente alpinista, circostanza mai provata) è penetrata talmente a fondo che solo un intervento assai radicale, con l’apertura di una porzione molto grande di calotta cranica, potrebbe forse salvarlo, anche se i neurochirurghi del XXI secolo non ne sono affatto certi.
Le ultime fotografie di quello che era stato uno dei capi più prestigiosi della rivoluzione russa ricordano il Cristo del Mantegna: il viso è sereno, la testa lievemente inclinata di lato. Trotsky sopravvive 25 ore all’aggressione: il 21 agosto alle sette e un quarto di sera ne viene dichiarata la morte.
Ha 60 anni e ha subito già numerosissimi lutti, tra i suoi compagni molti sono stati uccisi o si sono tolti la vita. Anche suo figlio, Lev Sedov, è morto in circostanze misteriose a Parigi nel 1938, e si sospetta che sia stato avvelenato da agenti di Stalin.
Adesso l’attenzione si concentra sull’assassino. Su chi sia il mandante nessuno sembra avere dubbi. Solo pochi mesi prima, il 24 maggio, un commando di uomini armati del quale faceva parte il pittore comunista e celebre autore di murales David Alfano Siqueiros, fedele a Stalin, ha preso d’assalto la villa di Trotsky, per cercare di eliminare il fondatore della Quarta Internazionale: la sparatoria è durata a lungo, sono stati sparati centinaia di colpi, Lev e la moglie Natalia Sedova e il nipote Seva si sono buttati sotto i letti e sono rimasti illesi. Da allora la sorveglianza è stata intensificata.
Ma l’uomo della piccozza chi è, e come è entrato in quel fortino super-protetto? Alla famiglia e alle guardie di Trotsky si è presentato come Frank Jacson di Toronto, cittadino canadese. Ma ha anche altri documenti, questa volta intestati a tal Jacques Mornard, uomo d’affari belga nato in Iran, bon vivant con idee di sinistra. Ci vorranno anni e anni prima che si scopra la vera identità dell’uomo rinchiuso nel carcere di Palacio Lecumberri, dove sta scontando la condanna a venti anni inflittagli per l’omicidio.
Sembra incredibile che un semisconosciuto dal passato fumoso e incontrollabile sia riuscito ad arrivare a tu per tu con Trotsky, nel suo studio, con ben tre armi letali nascoste sotto la giacca e nelle tasche dell’impermeabile che porta sul braccio, nonostante il tempo sia bello e caldo: la piccozza della quale ha segato a metà il manico, un pugnale e una pistola automatica. Jacson-Mornard da qualche tempo frequenta la villa, e sa che Trotsky è contrario alla perquisizione degli ospiti. Ha avuto gioco facile: ha chiesto al “vecchio” (così lo chiamano affettuosamente) di leggere e correggergli uno scritto politico, e mentre Trotsky era chino e assorto ha estratto la piccozza, assestandogli quell’unico colpo spaventoso, con il quale contava di ucciderlo silenziosamente e all’istante.
Non è andata così, e la vittima ha gridato: le guardie erano però in un’altra stanza, e sono arrivate a tragedia avvenuta.
A garantire al sicario l’accesso in rio Churubusco è stata una donna, Sylvia Ageloff, una trotskista americana dello Socialist Workers Party che di Trotsky è diventata la segretaria. E qui ci imbattiamo in uno dei tanti misteri di questo giallo che solo con il passare di molti decenni e l’apertura degli archivi assumerà i contorni di una vastissima congiura internazionale.
Sylvia Ageloff per molto tempo viene indicata come la “povera piccola Sylvia”, una militante fragile e ingenua ai limiti dell’idiozia, una bruttina bisognosa di affetto e abilmente sedotta dal bel Mornard (un moraccione con la faccia da attore e i folti capelli ondulati) che l’ha approcciata a Parigi nel 1938, e che ne è diventato ben presto il compagno di vita, un compagno di sicura fede trotskista.
Resasi conto di aver spianato la strada all’assassino, che con la scusa di discutere con Trotsky di politica è entrato più volte nella fortezza di Coyacan nonostante non ispiri simpatia e fiducia ai padroni di casa, Sylvia si mostra disperata e stupefatta, rispondendo con crisi isteriche alle domande degli inquirenti messicani, che inizialmente la ritengono complice dell’omicidio. Solo negli anni Settanta emerge dalle carte che i trotskisti americani che si occupavano della sicurezza di Lev erano stati pesantemente infiltrati dagli uomini della polizia segreta di Stalin, e la figura della “piccola Sylvia” assume contorni ben più inquietanti: una donna che aveva ancora famiglia in Russia, ed era dunque ricattabile, ed era consapevole dei lati oscuri e delle stranezze del suo “fidanzato”.
In carcere, Jacson-Mornard non fa e non farà mai alcuna rivelazione sui retroscena dell’omicidio.
Nessuno saprà fino al 1953 che il suo vero nome è Ramón Mercader, spagnolo cresciuto in Francia – dove avrebbe appreso alla perfezione, dice, l’uso della piccozza per l’intaglio dei gradini nel ghiaccio – figlio di una militante comunista ed ex combattente nella guerra civile spagnola (Ramón Mercader ha anche una sorella, Maria, che fa l’attrice e sposa Vittorio de Sica: dalla loro unione nasce Christian).
L’assassino di Trotsky viene rilasciato nel 1960, dopo il fallimento di vari tentativi di farlo scarcerare, ribattuti dal governo messicano. Insignito dell’onorificenza di Eroe di Guerra dell’Unione Sovietica, va a vivere dapprima a Mosca sotto un ennesimo falso nome e poi a Cuba, dove lavora per Fidel Castro. Per tutta la vita gli arrivano soldi sulla cui provenienza non ci sono dubbi.
Muore nel 1978 all’Avana, lo seppelliscono nel cimitero di Kuntsevo a Mosca: sulla lapide c’è scritto “Lopez Ramon Ivanovic”.
La piccozza del delitto, che come abbiamo detto forse apparteneva davvero a Mercader da anni, o forse l’assassino l’aveva rubata in una delle case che l’avevano ospitato, è rimasta nell’ombra per decenni: un agente della polizia segreta messicana, Alfredo Salas, la prelevò dal magazzino delle prove, sostenendo di volerla preservare per i posteri, e la affidò alla figlia Ana Alicia, che la conservò sotto il letto per 40 anni, finché nel 2005 non decise di venderla. Fu acquistata per una somma rimasta ignota dal collezionista americano Keith Melton, fondatore del Museo Internazionale dello Spionaggio di Washington, che oggi ospita il reperto, uno straordinario e macabro caso di piccozza diventata famosa per motivi non alpinistici.