L'arte di sopravvivere di Marek Raganowicz
Pubblicato il 19/07/2022
Tra il 17 aprile e il 21 maggio, Marek Raganowicz ha aperto MikroKozmik Variations (VII, A4 +, M5) presso Polar Sun Arm, isola di Baffin (Sam Ford Fiord), Canada. L'intera spedizione è durata 71 giorni, in cui Marek era solo nell'ambiente artico con temperature comprese tra -30 e -37 °C nel fiordo.
Traduzione dal polacco ed editing a cura di Luca Calvi.
In occasione di una serata tenuta presso un club d’alta montagna mi trovai a raccontare delle spedizioni all’Isola di Baffin, ovvero a parlare di freddo, di orsi polari e degli abitanti originali dell’Artico, ma soprattutto di pareti selvagge e di scalate pazzesche.
Quella sera, ad attirare la mia attenzione, fu una ragazza seduta in terza fila che peraltro non aveva proprio nulla di speciale per cui distinguersi e così finii col chiedermi per quale motivo proprio lei.
Forse fu proprio quel suo silenzio, o forse quell’aria riflessiva che sembrarono annunciare la domanda che alla fine mi fu posta, ovvero come si potesse sopravvivere a scalate in simili condizioni. La presentazione si stava avviando alla fine, quindi risposi brevemente che bisogna essere ben preparati e determinati, ma che occorre anche avere fortuna in quel gioco tra la parete, la natura selvaggia, le proprie debolezze e l’attrezzatura.
Un paio di mesi dopo una tempesta di vento alla base della parete dei Troll mi spazzò via la tenda e io stesso fui ricacciato indietro da quell’enorme parete a causa della forza dell’acqua e della neve. Tornai a casa, ma solo un paio di settimane dopo misi l’attrezzatura negli zaini e partii per l’Isola di Baffin.
Era il 20 marzo 2022, e la temperatura a Clyde River in piena regione artica era scesa a -37 gradi Celsius. Lì prima della partenza per la montagna la mia guida Esa mi ripeté più volte la domanda:
“Ma tu davvero vuoi che ti guidi fino al Sam Ford Fiord? Perché lì fa ancora più freddo!”
A quella domanda io continuai a ripetere a mugugni, come un asino cocciuto, che sarei andato alla Polar Sun Spire e che nulla mi avrebbe trattenuto.
A dire il vero non ero del tutto certo che sarei riuscito a salire quella parete e a resistere alla furia della natura dell’Artico.
Certo, avevo la miglior attrezzatura disponibile, un bel po’ di esperienza dalle spedizioni precedenti e sentivo dentro di me una fortissima motivazione, ma resta il fatto che in quel gioco il ruolo fondamentale è riservato all’ignoto. Continuava a tornarmi in mente la domanda della ragazza della terza fila, ma la forza d’attrazione della sfida non ascolta ciò che la ragione sussurra e non fa altro che spingerti ad andare avanti.
Così giovedì 24 marzo piazzammo sulla slitta i 230 kg dei miei bagagli e dopo cinque ore di viaggio in motoslitta arrivammo ai piedi della parete. Ad accompagnarmi furono due giovani Inuit, Ethan e Andy, che mi aiutarono a montare la tenda, mi prestarono un giaccone tradizionale per poter stare al caldo durante le passeggiate su e giù per il fiordo e mi lasciarono un fucile con alcune cartucce per poi spiegarmi in breve come sparare agli orsi polari, dopodiché mi salutarono con queste parole:
“Forza, ci rivediamo tra due mesi”.
Rimasi dunque da solo.
Esa aveva avuto ragione, faceva un freddo cane. Iniziò così l’avventura, lontano dalla civiltà, nel regno degli orsi polari, in mezzo al nulla, dove al massimo si vedono passare le slitte dei cacciatori o degli animali selvatici, dove mi trovai a vivere sotto una parete la cui fine potevo scorgere soltanto allungando il collo, fino a dover provare dolori insopportabili. All’inizio mi dovetti abituare alla realtà dell’Artico, così andavo a fare camminate, a scrutare la parete, ad osservare la via discesa e a verificare quanto tempo ci mettono le batterie a ricaricarsi con il pannello solare. Le passeggiate non potevano durare più di quattro ore, perché il freddo imponeva di proteggersi. Indossavo tutte le giacche e per ultimo il giaccone inuit che aveva un cappuccio foderato di pelliccia, grazie al quale riuscivo a proteggermi la faccia dal vento gelido e riuscivo a respirare senza problemi.
Non andava altrettanto bene a mani e piedi che mi si congelavano e che non riuscivo a proteggere a lungo, trovandomi così costretto a tornare dentro alla tenda a riscaldarmi con l’aiuto del fornelletto. In alcune occasioni mi capitò di vedere alcune slitte di cacciatori fermarsi, guardare nella mia direzione ma senza mai avvicinarsi ulteriormente. Mi diedero l’impressione di voler tenere quella distanza per rispetto dell’umano bisogno di solitudine.
Ci eravamo capiti, così come era successo le volte precedenti e quella fu sempre la parte più bella di tutte le mie spedizioni all’Isola di Baffin.
Quando capii che ormai stavo diventando parte del mondo dell’Artico e che stavo iniziando a vivere secondo il ritmo naturale di quell’ambiente, decisi di prendere confidenza con la parete e iniziai a posizionare le corde fisse. Ogni giorno uscivo dalla tenda e resistevo in parete quattro e addirittura cinque ore, dopo le quali dovevo scendere, poco importa se avessi terminato o meno la lunghezza da salire, perché la perdita di sensibilità ai piedi rappresentava il limite invalicabile che mi ero imposto.
Pochi giorni dopo già avevo attrezzato con corde fisse 7 lunghezze, quindi mi riposai e presi la decisione di attaccare definitivamente la parete. Da quel momento la tenda che fino ad allora era stato il mio campo base divenne un puntino che di giorno in giorno si allontanava sempre più nello sconfinato biancore del fiordo. Al suo interno erano rimasti il giaccone, il fucile con le cartucce e qualche oggetto personale. Casa mia era diventata la portaledge ed il mio mondo la parete nord della Polar Sun Arm. Era arrivato il momento per una scalata di quelle che danno la risposta alla domanda “chi sei per davvero”.
Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz scrisse un giorno “Cosa mai ti potrà capitare lì dove nulla ti si oppone e nulla è in grado di porti dei limiti?”
Ad opporsi davanti a me c’erano le sfide dell’Artico, quelle che segnavano i limiti delle mie possibilità:
Il freddo
In parete controllai la temperatura solo qualche volta, ma non aveva chissà quale senso farlo. Faceva semplicemente un freddo cane e lo sentivo ancor di più quando quasi soffocavo per nascondere il volto dentro al sacco a pelo doppio e quando nel mezzo della notte mi alzavo per accendere il fornelletto e riscaldarmi i piedi, oppure quando scendevo dalla portaledge a metà del tiro, terrorizzato dall’assenza di sensibilità ai piedi.
La neve
La neve dell’Artico in parete è differente da quella dell’Himalaya, delle Alpi o dei Tatra e ricorda lo zucchero con cui si glassa una torta, che ha bisogno di tempo e di cambi di temperatura per diventare un tutt’uno con ciò che si trova al di sotto e fino a quel momento dona alla parete voce e movimento, si spande con un unico enorme sbuffo rombante come se qualcuno avesse fatto partire un idrante pieno di neve. Durante i 35 giorni in parete mi è capitato di non uscire dalla portaledge a causa del pulviscolo nevoso solo due volte. Continuavo a ripetermi “Vai a scalare ogni giorno che poi altrimenti dovrai pentirti di ogni singola pausa”.
Il respiro della parete
A marzo il versante settentrionale della Polar Sun Spire sembra essere un monumento silenzioso. Poi, ad aprile e maggio inizia a respirare e ad esprimersi con il fragore delle pietre che cadono. Si staccano interi blocchi rocciosi, e a cadere sono anche le cornici nevose. Quando ancora andavo a dormire nella mia tenda, a svegliarmi durante la notte era l’assordante rimbombo degli schianti contro la neve alla base della guglia, rumore che in aperta parete si trasformava nel sibilo dello spostamento d’aria e nei boati con cui i massi andavano a fracassarsi contro le rocce, da destra da sinistra, da dietro…
La fame
Prima della partenza da Ottawa per l’Isola di Baffin mi trovai a dover fare la spesa delle cibarie per tutti i sessanta giorni. Era il 20.03.22, domenica, e al mattino mi ero fatto una colazione davvero sontuosa. La pancia piena, però, finì col farmi ridurre gli appunti segnati nella lista della spesa che mi ero preparato. Fu all’incirca quando ero a metà della parete che compresi chiaramente che occorre andare a fare gli acquisti quando si è ancora affamati. Durante gli ultimi dieci giorni della mia via, per resistere, mi trovai a dover diminuire della metà le mie razioni di cibo, quindi 5 cucchiai di crunchie, 3 caramelle e mezza barretta, dato che cioccolata, carne secca e frutta secca erano ormai finiti da tempo. Per cena un vero e proprio banchetto con mezza busta di cibo liofilizzato. Sognai in quel periodo non so quante volte di essere in un supermercato a riempire il carrello di tutto ciò che mi mancava.
La paura
Avevo paura. So che a più di qualcuno potrà sembrare strano, perché quale mai potrà essere quella paura che permette di andare fino alla fine del mondo per salire senza compagni una parete piena zeppa di roccia marcia, di blocchi instabili pronti a staccarsi, di fessure che scompaiono, di freddo e di “respiri” assolutamente imprevedibili? Ciò nonostante avevo paura, soprattutto all’inizio, quando ancora non ero stanco. In seguito riuscii ad abituarmi a quella mia parete, alla vita al suo interno e alla paura. Mi adeguai a quei “respiri”, accettai le incapacità e imparai a gioire delle piccole vittorie di ogni giorno.
La stanchezza
La stanchezza crescente da un lato attenua la paura e alimenta l’indifferenza, mentre dall’altro fa sì che la parete assuma un carattere particolare, personale, forse perché le esperienze forti si innestano, si radicano nella memoria e sono legate a quell’unicità di tempo e luogo. La parete smette di essere il precipizio o la semplice roccia che vedo davanti ai miei occhi e si trasforma in ricordi dell'inverno, della fame, della paura e della fatica.
Memorie che rimangono per sempre nella nostra memoria e che ci definiscono.
Quattro giorni dopo esser sceso dalla parete, mentre stavo aspettando l’aereo all’aeroporto di Clyde River, fui avvicinato da un Inuit. Sul suo volto bruciato dal vento gelido aveva i segni bianchi degli occhiali, il che stava per me a significare che si trattava di uno di quei cacciatori che in ogni momento libero sfrecciano con le motoslitte nel desertico biancore dell’Artico. Con la sua caratteristica cadenza lenta mi chiese:
“Eri tu quello che stava scalando nel Sam Ford Fiord?
Feci cenno di sì con la testa e gli rivolsi un sorriso cortese.
“Sono passato da quelle parti un paio di settimane fa, mi sono fermato a scrutare la parete cercando di individuarti, ma ciò che riuscivo a vedere era solo la tua portaledge gialla montata sopra gli strapiombi. È davvero bello vederti, sai, perché poi ho continuato a chiedermi chi mai potesse essere quel tizio che era salito su quella parete ed ero sicuro che ormai fossi morto…"
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MikroKozmik Variations, VII, A4+, M5, Polar Sun Arm, Isola di Baffin (Sam Ford Fiord), Canada, 17.04 – 21.05.2022 (35 giorni) più 7 giorni di posizionamento corde fisse. Prima Ascensione: Marek Raganowicz.
Durata dell’intera spedizione: 19.03- 28.05.2022 (71 giorni)
Giornate passate nell’area di attività (Sam Ford Fiord): 24.03 – 22.05.2022 (59 giorni)
Giornate di posizionamento corde fisse: 7 giorni dal 01.04 al 12.04.2022
Giornate di scalata con bivacco in parete: 17.04 – 21.05.2022 (35 giorni)
Composizione della spedizione: Marek Raganowicz, senza accompagnatori, fotografi o cameraman.
Comunicazioni: Comunicatore di testo (no telefono satellitare).
Condizioni atmosferiche: Nelle prime settimane della spedizione le temperature all’interno del fiordo si mantenevano tra i -30 ed i -37 gradi Celsius. Le temperature in parete aperta (esposizione a nord) erano più basse dai 5 ai 10 gradi e si abbassavano ulteriormente all’interno di diedri, camini e fessure. Per la maggioranza dei bivacchi effettuati durante la salita il termometro all’interno della portaledge segnava dai meno venti ai meno venticinque. Sempre all’interno della portaledge le temperature massime raggiungevano durante il giorno i meno cinque.
Le ascensioni solitarie di pareti nell’Isola di Baffin appartengono alla categoria delle eccezionalmente rare. Finora hanno aperto vie i seguenti scalatori:
Charlie Porter (via Porter, VI, 5.9, A4, Monte Asgard North Tower, 01-10.09.1975).
Jim Beyer (Project Mayhem, VII, 5.10c, A5c, Mt. Thor, 2 stagioni 2000 i 2001).
Mike Libecki (The Hinayana, VI, 5.8, A3+, Ship’s Prow, aprile-giugno 1999).
Marek Raganowicz (due vie: 1. MantraMandala, VI, A3+, 23.03 – 08.04.2017, Ship’s Prow e 2. Secret of Silence, VI, A4, 23.04 – 01.05.2017 più 4 giorni per piazzare le corde fisse, Ship’s Prow).
Marek Raganowicz.
Come alpinista, sono nato sui Monti Tatra polacchi, poi sono cresciuto tra le Alpi e l'Himalaya. Il mio vero amore è l'arrampicata in solitaria e big wall, che ho iniziato a fare in Yosemite. Non mi limito a scalare grandi pareti, mi muovo e ci vivo, respirando il loro ritmo. L'arrampicata mi affascina; l'intensità dell'esperienza, la varietà della natura sul fianco della montagna, le sfide, la solitudine, le amicizie e il modo in cui le persone possono essere vinte dalla passione e dalle avventure dell'arrampicata.