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Articolo: TAGHIA CLIMBING EXPEDITION - ADDENTRANDOSI NEL MEDIO ATLAS MAROCCHINO by Silvia Loreggian

TAGHIA CLIMBING EXPEDITION - GOING INTO THE MOROCCAN MIDDLE ATLAS by Silvia Loreggian
Climbing

TAGHIA CLIMBING EXPEDITION - ADDENTRANDOSI NEL MEDIO ATLAS MAROCCHINO by Silvia Loreggian

Pubblicato il 30/06/2020

Taghia è un villaggio di 600 abitanti sperduto nel Medio Atlas marocchino. Soggiornare a Taghia vuol dire immergersi in un’altra epoca e in uno stile di vita che non ha niente a che vedere con il nostro. E’ bello e interessante scoprire realtà diverse, è uno degli aspetti che ci spinge a viaggiare. Al tempo stesso, può risultare difficile, sia perché il nostro vivere inseguendo le passioni contrasta col loro mero sussistere, sia perché avere problemi che per noi “occidentali” si risolverebbero in un salto in farmacia o in un passaggio in macchina, laggiù sono decisamente problemi seri.

Giusto per inquadrare meglio l’ambiente, il modo migliore per raggiungere Taghia è da Marrakech (per la quale ci sono voli low cost da quasi tutte le principali città italiane), da dove poi mancano circa 5/6 ore di taxi o autobus in direzione nord-est. Arrivati al villaggio di Zahoiua, ci sono ancora 2 ore a piedi su sentieri berberi che attraversano il torrente e talvolta solcano delle cenge rocciose per arrivare alla meta di questo viaggio.

Nel villaggio di Taghia ormai da diversi anni si è sviluppato un certo fermento di arrampicata, che ha spinto ormai sette nuclei familiari locali a creare delle gite d’etape per accogliere i turisti con ricche cene di tajin e un letto.

I proprietari delle gite mettono a disposizione anche i loro asini per aiutarti nel trasporto dell’attrezzatura da arrampicata che, si sa, pesa parecchio sulle spalle.

Raggiunto il villaggio dopo questo lungo viaggio, ai nostri occhi si erge imponente l’Oujdad, circondato a sinistra e destra da due profondi canyon, che a loro volta si biforcano in altri canyon e che sono sovrastati da pareti verticali di calcare che cambia tonalità dall’ arancio al marrone a seconda della luce dell’alba, del giorno o della sera. Le pareti da scalare sono tantissime e di tutte le lunghezze: dai duecento ai novecento metri. L’arrampicata è prevalentemente di carattere sportivo e presenta itinerari di una bellezza sorprendete, vista la qualità ottima della roccia che ha attratto apritori “di livello” da un po’ tutta Europa.

I periodi migliori per scalare laggiù sono le mezze stagioni: aprile-maggio e settembre-ottobre. Noi siamo arrivati il 3 novembre e, dopo una settimana piena di ripetizioni di belle vie (tra cui assolutamente da segnalare “Les riviéres pourpres” sul Taoujdad e “Tout pour le club” sull’Oujdad) abbiamo regalato un giorno di tregua alla pelle delle nostre povere mani che ormai soffrivano il contatto con questa roccia più che abrasiva, per addentrarci nei canyon alla ricerca di una parete vergine dove aprire la nostra linea. Troviamo la parete, individuiamo la linea e il giorno seguente ci occupiamo di trasferire tutto il materiale (quindi spits, trapano, corde, rinvii e attrezzi vari necessari all’apertura e sacchi a pelo, materassini, fornellino, gas e cibo per rimanere all’interno del canyon diversi giorni senza dover fare avanti-indietro dal villaggio ogni giorno, trovandosi la parete a tre ore di cammino da Taghia). Depositiamo i sacconi in una grotta vicino alla parete e torniamo al villaggio, decidiamo di rifocillarci e dormire alla gite un’altra notte e l’indomani salire freschi e cominciare l’avventura.

Sfortunatamente, l’indomani siamo tutti e due malati a letto con la febbre che oscilla tra i 38 e i 39 e gli unici movimenti che riusciamo a fare sono alzarsi per vomitare o per andare al bagno. Scopriamo inoltre che il nostro materiale depositato in grotta è in realtà alla mercé dei pastori, i quali sono soliti rubare attrezzatura da arrampicata (che in Marocco è molto rara) per poi rivenderla. Con l’ansia di questo grosso furto, siamo costretti a pagare un ragazzo locale affinché trasporti tutto il nostro materiale dalla grotta a quello che chiamano rifugio (a mezz’ora di cammino). Il rifugio è semplicemente un casolare di pietra, tenuto sotto chiave dallo stesso pastore che costituisce la minaccia del furto; ma che, a quanto pare, se gli viene affidata la custodia del materiale (e retribuito per questo), farà il bravo.

Viviamo i successivi tre giorni chiusi in camera e quando al quarto giorno ci decidiamo a provare a mettere il naso fuori.. Una sottile coperta bianca di neve ha vestito l’intera valle! Niente paura, aspetteremo ancora un paio di giorni così da recuperare le forze, nella speranza soprattutto che si alzino un po’ le temperature.

Le temperature restano gelide, ma ci siamo stufati di aspettare e partiamo per la nostra avventura. Che freddo che soffriamo!! Nel canyon dove scorrerebbe l’acqua c’è ghiaccio. In sosta siamo così imbottiti: piumino leggero, doppio piumino grosso, cappello di lana, fascetta e tutti i cappucci possibili, scarpe e calzini (e ciò nonostante i piedi completamente gelati). E chi dei due scala in parete con le scarpette e le mani sulla roccia? Neanche da descrivere! Il muro che abbiamo scelto, tra l’altro, è molto difficile: le micro concrezioni che variano un po’ la placca sarebbero difficili da tenere anche con le dita calde!

Ma facciamo un salto indietro a qualche dettaglio logistico. Innanzitutto partiamo da Taghia di buon’ora con due zainetti leggeri avendo già tutto il materiale al rifugio. Il discorso materiale è veramente paradossale perché stiamo salendo sperando di trovare il cosiddetto rifugista (che non risponde al telefono e non si sa per quale anfratto sia disperso) a cui dovremmo anche pagare una somma per la custodia (totalmente disimpegnata) di questo materiale, ma a cui siamo stati costretti ad affidarci per sottrarlo alla mercé del furto da parte dei pastori. E chi è l’unico pastore che frequenta la zona? Lui! Quindi non solo affidiamo il nostro materiale al nostro unico potenziale ladro, ma anche lo dobbiamo pagare per il servigio. E quando arriviamo, dopo un’ora e mezzo di cammino, il rifugio è chiuso a chiave e ovviamente non c’è l’anima viva di nessuno. Proviamo a cercare qualche traccia di una notte trascorsa in una delle grotte vicine, ascoltiamo i rumori, invochiamo ripetutamente il suo nome... Nulla, ci rispondono solo le capre sparse nei pendi vicini e l’eco delle nostre stesse voci. Ci rassegniamo e sediamo lì in attesa che prima o poi qualche d’uno si presenti. Dopo una mezz’oretta, infreddoliti, ritentiamo di scovare le chiavi nascoste sotto qualche masso e.. colpo di fortuna, trovate! Recuperato così il fardello, malediciamo ancora questo maledetto rifugista/pastore/ladro ma almeno non avendolo incrociato ci risparmiamo di pagarlo.

Raggiunta la parete e sfoderata tutta l’attrezzatura, affrontiamo la prima lunghezza: facile, 50 metri di 6a e con moltissime possibilità di protezione a friend. Raggiunta la cengia, issiamo quassù tutto il materiale e attacchiamo il muro principale. Il sole ci degna dei suoi raggi per un’ora felice ma poi, è di nuovo gelo. La parete presenta difficoltà veramente estreme per noi con queste temperature e dopo tre gelide ore in parete, di tentativo di chiodatura dal basso, ne esce un bel tiro con gradazione intorno al 7c. Sono ormai le cinque, montiamo le fisse e ci rifugiamo dal vento giù nella grotta. Nella grotta è il paradiso rispetto a quello che sta succedendo fuori: accendiamo il fuoco (che fa più fumo che fiamma, ma comunque fa il suo) e consumiamo un pasto liofilizzato... ci sembra buonissimo dopo dieci giorni di dieta marocchina! La tipica tajin e il classico cous cous sono buonissimi, sia beninteso, ma quando dopo dieci giorni che mangi sempre e solo questi due piatti, senza nessuna variazione nella modalità di cottura, una busta liofilizzata di pappardelle al ragù ha tutto un’altro gusto!

Il giorno successivo è ancora più freddo del precedente e il vento gelido non cessa mai. La giornata passa destreggiandoci alla ricerca di appigli invisibili per mani e piedi sperando di trovare prima o poi un punto discreto dove posizionare il cliff per chiodare. Il vento soffia così costante che nei minuti che impieghiamo appesi a piantare lo spit ci trasformiamo in rigide statue di marmo. Vi lascio immaginare le peripezie per provare a scaldarci per ripartire lì appesi nel vuoto. Nel tardo pomeriggio con il vento che cresce e le spire di corda che iniziano a mettersi in orizzontale decidiamo che forse non è più il caso di continuare, lasciamo una maglia rapida e salutiamo il nostro progetto con la promessa di tornare il prossimo anno..

Un’ultima straziante camminata con i sacconi che ci schiacciano verso il basso e siamo a Taghia, le previsioni danno meteo ancora in peggioramento, decidiamo quindi di non tornare più in parete nemmeno per un’ultima ripetizione.

Prepariamo le valigie, ci gustiamo l’ultima immancabile Tajin ed il giorno successivo ci incamminiamo con il nostro fedele asino verso Marrakech per il volo di rientro.

Un po’ dispiace dover lasciare un progetto in sospeso, il bello però è che abbiamo la scusa pronta per poter viaggiare il prima possibile e tornare a finirlo, la prossima volta meglio in una calda settimana di primavera!

Prodotti Grivel in primo piano:



Silvia Loreggian, nata a Padova nel 1990, vive nelle Dolomiti italiane e fa parte del team Grivel dal 2016. Guida alpina, scalatrice e alpinista, ha ripetuto itinerari simbolo dell'arrampicata nelle Dolomiti e nell'area del Monte Bianco. Ha effettuato spedizioni nei luoghi più belli della terra, tra cui Patagonia, Marocco e Nepal.
Prodotti Grivel preferiti: Tech Machinebastoncini Trail Three, rinvii Grivel.