L’ingegnere, il rampone e la bestia – di Marina Morpurgo
Pubblicato il 26/03/2021
Courmayeur, 1909. Un tizio malvestito e con un gran barbone castano entra nella bottega del fabbro Henri Grivel, con un disegno in mano: è quello di un rampone a dieci punte, che Grivel gli dovrebbe forgiare. Il fabbro non sembra molto convinto, nicchia, di sicuro non pensa di avere sotto gli occhi il progetto di un attrezzo che rivoluzionerà le scalate sul ghiaccio, liberando l’umanità alpinistica dall’immane fatica di spiccozzare gradini sui pendii.
Come dar torto a Grivel? Il tizio è inglese, si chiama Oscar Eckenstein (suo padre era un ebreo prussiano di simpatie rivoluzionarie, fuggito a Londra per evitare le rappresaglie dopo il fallimento dei moti tedeschi del 1848), e il suo aspetto rozzo e irsuto impedisce di cogliere all’istante la mente geniale e analitica di quell’ingegnere ferroviario, studioso dei materiali e delle forze e talento matematico, nonché alpinista rude e coraggioso.
Non ispira molta fiducia, Eckenstein. Con poco garbo dicono di lui che ha un fisico primitivo, da scimmione. Forse ci sarà dell’invidia perché lo scalatore, ex ginnasta, si esibisce in trazioni su un braccio solo, e ha una forza non comune – ma questa prestanza fisica non lo distrae dal voler studiare i movimenti della scalata per trasformarla in una faccenda di equilibri, dove l’uso accorto dei piedi ha più importanza della muscolatura delle braccia. Come abbiamo detto si veste malissimo, in spregio alle convenzioni: anche in città gira, estate e inverno, con dei sandalacci di corda, porta un berretto da pescatore greco e in più fuma un tabacco da pipa pestilenziale.
Henri Grivel ha di fronte uno che gli sembra un mezzo matto, insomma. D’altronde non è una sensazione rara, di fronte a quei primi alpinisti venuti da lontano. Un trafiletto comparso sull’Evening Express del 7 luglio 1907 segnala l’arrivo a “Courmeyeur” dello stesso Eckenstein, reduce da un accampamento in alta quota: la cronaca spiega che i componenti del gruppo erano stati dati per morti visto che non si erano visti per un po’, e che comunque i paesani avevano reagito “con blando interesse” anche perché convinti che quegli uomini “dovessero essere pazzi”. Chissà se la cronaca è attendibile: il sospetto nasce perché “Courmeyeur” secondo l’estensore dell’articolo si trova in Svizzera…
In ogni caso Henri Grivel si lascia convincere – Oscar Eckenstein dimostra la volontà e la capacità di pagare il prototipo – e fa molto bene: quel rampone, che come unico vero difetto ha quello di pesare poco meno di un chilo e mezzo, è destinato a grandi cose. Ed Eckenstein introducendo l’uso dei ramponi disegna e fa costruire anche una piccozza dal manico corto, anticipando i tempi.
Il destino di Eckenstein invece resta sempre quello di non essere riconosciuto, di essere un perenne emarginato, specie in patria – emarginazione alla quale contribuiscono certamente due elementi: è ebreo, in un ambiente dove l’antisemitismo si fa sentire, e per di più è anche socialista. Aggiungiamoci il carattere spigoloso e arrogante, ed è fatta. La trovata dei ramponi viene accolta con freddezza dall’Alpine Club, sodalizio con il quale Eckenstein ha pessimi rapporti: per il club questi sono mezzucci, è barare rispetto alla purezza della scalata con lo scarpone chiodato. Le grappette, quegli aggeggi a punta che già dall’antichità qualcuno ha pensato di fissare sotto le suole per non scivolare – insomma i bisnonni o trisnonni dei ramponi¬ – erano roba da pastori o contadini o cacciatori, e tali devono restare: i veri alpinisti non vi fanno ricorso. Con una mossa che potremmo definire di marketing geniale, Eckenstein il 30 giugno 1912 per dimostrare la bontà dell’invenzione organizza una gara sulla seraccata del ghiacciaio della Brenva. Al “Concours de cramponneurs” partecipano, sfidandosi in stile e velocità, le guide e i portatori di Courmayeur.
Ma ancora una volta l’ingegnere sembra troppo avanti e troppo moderno per i ranghi ingessati dell’Alpine Club. Allora scrive provocatoriamente nei suoi Consigli ai giovani scalatori che i veri campioni vanno cercati al di fuori delle gerarchie dell’alpinismo: il vero asso lo distingui se usa i ramponi, e se riesce a stare in equilibrio su una gamba sola su un pendio di ghiaccio liscio e inclinato a 70 gradi, e senza scavare gradini.
Eckenstein è fatto così, aggressivo e diretto, un tipo difficile, un originale, uno che non esita a dichiarare che se gli permettessero di legare una vacca per le zampe lui saprebbe portarla in cima al Cervino.
Insomma ci mette del suo nel farsi emarginare, al punto che quando nel 1921 muore di tisi (o di “consunzione”, come si dice all’epoca: tra l’altro ha sofferto di asma per tutta la vita) nessuno scrive e pubblica un suo ricordo, e sì che i britannici sono maestri negli “obituary”: non lo omaggiano i “nemici” dell’Alpine Club, nonostante Eckenstein abbia avuto frequentazioni con qualcuno di loro, ma lo ignora perfino il Climbers Club, che lo ha visto tra i suoi soci, e tra i collaboratori della sua rivista, specie per le pagine di tecnica dell’arrampicata (tra i consigli di Eckenstein, che è un boulderista ante litteram, c’è quello di utilizzare ogni parte del corpo per abbrancare la roccia, dal mento alla bocca e ai gomiti).
Questo suo caratteraccio lo ha portato a legarsi con un altro alpinista sui generis, uno che gode di una fama di gran lunga peggiore di quella dell’ingegnere ferroviario: Aleister Crowley (all’anagrafe Edward Alexander Crowley), scrittore, occultista, appassionato di riti sessuali-magici. Crowley è un giovanotto ricco ed eccentrico, ama farsi chiamare “La Bestia 666” – il nomignolo gli è stato affibbiato con rabbia dalla madre, non esattamente entusiasta dello stile di vita decadente del figliolo, che ama presentarsi come un essere privo di freni morali e dei sentimenti riconosciuti come accettabili e decenti.
Crowley ha 17 anni meno di Eckenstein, e una venerazione nei confronti del compagno più esperto. Si sono conosciuti nel Lake District, nel 1898. Sono una strana coppia, anche perché Crowley è un bravo alpinista, ma dal punto di vista umano non è esattamente il compagno di scalate ideale. Alcuni tratti del suo carattere oggi possono sembrarci solo ridicoli, da “poser”, da egocentrico incallito: come quando durante il tentato assalto al K2, nel 1902 (Eckenstein è il capo spedizione, Crowley è il suo vice), si intestardisce nel voler portare con sé al campo base un’intera biblioteca, con “Milton e tutto il resto”, e ne nasce una discussione. Succedono però anche cose ben più gravi: durante la salita Crowley punta una grossa pistola contro l’altro alpinista inglese del gruppo, Guy Knowles, quando questi si rifiuta di continuare a salire nella bufera e minaccia di ucciderlo, finché non viene disarmato con la forza. I biografi di Crowley più benevoli addebiteranno questo fatto a un delirio da febbre malarica, di cui l’alpinista-satanista soffre.
La spedizione si blocca a circa 6.700 metri di quota, un record per l’epoca: il tempo è brutto e un componente austriaco della squadra ha un edema polmonare. D’altra parte la spedizione era partita già sotto una cattiva stella. A Rawalpindi Eckenstein era stato fermato e arrestato con il sospetto di essere una spia tedesca (con quel cognome!), sospetto gravissimo in quegli anni in cui le aspirazioni imperialistiche germaniche erano già uno spauracchio. Ad aggiungere un po’ di colore girava anche voce che l’innocuo ingegnere, appassionato di yoga e altre discipline orientali, fosse un assassino a sangue freddo. Ripartire per il Kashmir era stata un’impresa, Eckenstein aveva dovuto rivolgersi personalmente a lord Curzon, vicerè dell’India. L’ipotesi più accreditata, ancora oggi, è che la storia della spia fosse una vendetta di sir William Martin Conway, aristocratico presidente dell’Alpine Club britannico, uno dei tanti nemici per la pelle che Eckenstein si era fatto in quell’ambiente: nel 1892 Conway lo aveva invitato a partecipare a una spedizione nel Karakorum, e i due avevano litigato furiosamente finché Eckenstein non se n’era andato.
Chissà se è proprio il fatto di essere, ciascuno a modo proprio, degli emarginati dall’ambiente alpinistico a tenerli insieme, nonostante le differenze di età e mentalità (Eckenstein è molto interessato alla meditazione, ma trova ridicole le pratiche magiche che Crowley arricchisce con un abbondante ricorso alle droghe; Crowley ostenta i soldi, Eckenstein è un tipo così austero che tanti lo considerano un poveraccio, quando non lo è affatto). Ma insomma i due non avranno mai una rottura vera e propria e questo è un miracolo, specie alla luce dei difetti di Crowley. La manifestazione più clamorosa di questi gravissimi difetti caratteriali dell’alpinista occultista si ha nel 1905, nel corso di un tentativo di ascensione al Kanchenjunga passando dal ghiacciaio di Yalung. Crowley è il capospedizione, Eckenstein non ha voluto far parte del gruppo, accampando vari pretesti per resistere all’insistenza dell’invito: il tentativo finisce in tragedia, quattro componenti durante la discesa dal campo numero 5 vengono uccisi da una valanga. Cose che purtroppo succedono spesso in Himalaya, ma non succede spesso che il capospedizione rimanga nel sacco a pelo a bere tè, rifiutandosi di dare una mano ai soccorsi e indifferente alle disperate invocazioni di aiuto dei superstiti – e questo succede dopo giorni di litigi e ammutinamenti, con i portatori atterriti da Crowley, che li prende a bastonate quando gli gira storta. È tecnicamente bravo, l’alpinista inglese, e ha intuizioni geniali che lui addebita alla magia e non al senso della via che solo i grandi scalatori posseggono: però chi vorrebbe un compagno del genere?
Invece con Eckenstein sono anni di scalate, in Messico dove tra una cima e l’altra si sostentano a burro danese in scatola e champagne, e sulle Alpi, dove il più giovane Crowley si presta di buon grado alle prove di abilità e coraggio che Eckenstein, che ha la passione per la didattica, gli impone: lui, allergico a qualunque forma di autorità, riconosce quella dell’amico e maestro. Crowley, che litiga con tutti, e critica aspramente e rompe rapporti, scrive con mestizia nelle sue Confessioni che solo l’infelice conclusione della vita del socio “con la tisi e il matrimonio” (sic) è venuta a guastare i piani di quella mente sublime…
Marina Morpurgo, dopo aver fatto la giornalista è diventata traduttrice letteraria dall’inglese e autrice di manuali di storia per le scuole. Ha pubblicato narrativa e saggistica per ragazzi con Feltrinelli, e romanzi brevi e racconti con la casa editrice Astoria. L’ultimo dei suoi libri di narrativa “È solo un cane (dicono)” è stato ripubblicato in forma ampliata nel 2020. Adora la neve fresca, i cani, i gelati, e sgambettare sulle placche di granito, mentre detesta i traversi e tutto ciò che è strapiombante.
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