Coleridge e la prima arrampicata sportiva della storia - di Marina Morpurgo

Pubblicato il 7/05/2021

Un sabato mattina di agosto del 1802, il poeta Samuel Taylor Coleridge esce da Greta Hall – la grande casa di Keswick nel Lake District – con uno zaino, che noi definiremmo più propriamente un fagotto, contenente i seguenti generi di conforto e riparo: tè, zucchero, una camicia, un foulard, due paia di calze, una berretta da notte, un pezzo di tela cerata, un calamaio, una mezza dozzina di penne, carta per gli appunti, e un libro di versi del poeta tedesco Heinrich Voss. Ha in mente di compiere quello che oggi chiameremmo un trekking esplorativo, e di attraversare le zone più selvagge di una regione che con i suoi paesaggi drammatici ha già conquistato le attenzioni di poeti e letterati.

Rientra a casa ben nove giorni dopo – una vera impresa in stile himalayano – e viene accolto malissimo dalla signora Coleridge, che lo rimprovera aspramente per gli abiti sbrindellati e le scarpe ridotte da far pietà, e non si mostra affatto impressionata dal valore alpinistico del marito, il quale non solo ha fatto registrare la prima salita ufficiale sul Monte Scafell, che con i suoi modesti 978 metri è pur sempre la seconda vetta della Gran Bretagna e la prima d’Inghilterra, ma soprattutto si è reso protagonista, anche se non intenzionalmente, di quella che è considerata la prima arrampicata sportiva della storia. Da solo e senza corda è infatti sceso lungo una serie di infide cenge e paretine verticali (note oggi come Broad Stand) che nei secoli successivi diventeranno una delle bestie nere del soccorso alpino locale.

Questa notevole conquista non riesce a far dimenticare alla signora Coleridge che suo marito, sordo agli strilli suoi e a quelli di una certa Mary (probabilmente una domestica) si è impadronito della ramazza destinata alla cucina per farne un alpenstock, dopo averne strappati i ramoscelli, che ha lasciato sparsi sul pavimento (è lui stesso a confessarlo). Nell’ira di Sara Coleridge, che pure è nota per il suo carattere dolce e il bell’aspetto, gioca probabilmente un ruolo anche il fatto che lungo tutto il percorso il poeta scrive lettere dettagliatissime al suo grande amore, che si chiama sì Sara, però non è la Sara che ha sposato ma bensì Sara Hutchinson, cognata dell’altro poeta romantico e naturalista William Wordsworth.

Ma torniamo all’impresa di Coleridge, che guardando le impressionanti foto del versante di discesa dalla cima dello Scafell per la cresta di Mickledore, ci appare come un pericolosissimo frutto di estasi poetica unita a un eccesso di confidenza nelle proprie doti di esploratore: grazie alle lettere all’amata Sara, scritte strada facendo, e agli stralci del diario, lo possiamo seguire letteralmente passo per passo, dall’ebbrezza all’angoscia, poi nuovo all’ebbrezza e al sollievo.


Coleridge è un camminatore formidabile, come l’amico e collega Wordsworth: gente che regge senza troppo sforzo trenta miglia al giorno. Ma decisamente come scalatore è ingenuo, e anche un po’ pazzo, e per lui i guai cominciano il 5 agosto, quando arriva in cima allo Scafell Pike, dove trova riparo su un roccione piatto: il cielo in direzione del mar d’Irlanda si è fatto nero, tira vento, e il poeta non ha niente da mangiare, ma quel che è peggio sotto la roccia sulla quale si è sistemato a scrivere e riposare si spalanca un precipizio spaventevole. Gli fa compagnia una pecora solitaria, appollaiata su una cengia.

Coleridge è eccitato, estatico, e quando riprende il cammino ne combina una delle sue – lo ammette lui stesso, definendo il proprio atteggiamento “criminale per un padre di famiglia”: “Quando giudico che sia venuto il momento di scendere da una montagna, sono troppo sicuro di me stesso e troppo pigro per guardarmi attorno e gironzolare e cercare una traccia di passaggio o qualche altro segnale che la via sia sicura. Non appena si può scendere, vado, affidandomi alla fortuna.”
E così il poeta si avventura lungo il percorso che oggi è chiamato Broad Stand. All’inizio scivola giù senza difficoltà, il versante è ripido ma non roccioso, però poi cominciano i salti di roccia, verticali e lisci. Non sono molto alti, almeno all’inizio, e così Coleridge si aggrappa con le mani al bordo e si lascia cadere sulla cengia sottostante. Alla paretina ne seguono altre, una via l’altra: il poeta comincia a essere esausto, trema, non governa più braccia e gambe. Su una delle cenge incontra una pecora defunta, e intuisce che la povera bestia, rimasta incrodata, è morta cercando di fare la cosa che sta facendo lui.
Si rende conto dell’esistenza di una delle leggi della scalata: che non è detto che tu riesca a scendere da dove sei salito, e viceversa. Se la legge di gravità gli ha consentito di divallare, le paretine verticali di roccia viscida non gli consentiranno di tornare sui suoi passi, per cui è costretto a proseguire, finché non arriva al crux della discesa, una parete più alta delle altre, sono oltre tre metri, e la cengia sottostante è talmente esile che il poeta è certo che lasciandosi cadere si ribalterebbe all’indietro e finirebbe nel vuoto, andando incontro alla morte. A quel punto si distende sulla schiena, circondato da pareti repulsive, sotto un cielo di tempesta, e qui cade in una sorta di trance poetico: sono calmo, Dio! Sono benedetto, anche se non so come scendere o come risalire! L’anima nuota nell’aria come un volo di storni!
Quando si rialza, però, guardandosi attorno vede che alla sua sinistra si apre una fenditura nella roccia, si affaccia e capisce che infilandosi lì dentro potrà scendere senza pericolo, protetto dalle pareti di quel passaggio in camino che oggi si chiama Fat Man’s Agony. E così passa, pur non essendo un fuscello, ma un uomo discretamente in carne: quando esce, sano e salvo e fuori dalle difficoltà, si accorge di avere il torace coperto di ponfi rossi, probabile reazione alla fatica sovrumana (e intanto recupera la scopa di casa, che aveva lanciato di sotto per avere le mani libere).
Deve ancora camminare parecchio, e affrontare tuoni e rovesci prima di arrivare a Eskdale, dove trova alloggio in una fattoria, ma ormai è talmente esaltato che vorrebbe avere la forza e la salute per proseguire per un mese intero.
È il 6 agosto, rientrerà a casa, a Greta Hall, il 9 agosto.


La descrizione del ravanage più letterario, scriteriato e studiato della storia del Lake District si conclude con una notazione sullo stato degli abiti del poeta, che ormai non possiede più nulla che non sia rattoppato sulle ginocchia, sui gomiti e sul sedere: ma è escluso che possa comprarsene di nuovi almeno fino a Natale.


P.S.  Oggi il Broad Stand è percorso da gente in cordata, con il caschetto.

 


Marina Morpurgo
, dopo aver fatto la giornalista è diventata traduttrice letteraria dall’inglese e autrice di manuali di storia per le scuole. Ha pubblicato narrativa e saggistica per ragazzi con Feltrinelli, e romanzi brevi e racconti con la casa editrice Astoria. L’ultimo dei suoi libri di narrativa “È solo un cane (dicono)” è stato ripubblicato in forma ampliata nel 2020. Adora la neve fresca, i cani, i gelati, e sgambettare sulle placche di granito, mentre detesta i traversi e tutto ciò che è strapiombante. Foto © Gli Sfacciati