La nostra relazione con la natura: dalle aree protette al rewilding di Marco Grasso
Pubblicato il 16/07/2021
Il modo in cui ci relazioniamo con la natura e il pianeta dice molto su come ci definiamo, sia personalmente che collettivamente, sui nostri modi di associarci a un particolare ambiente di cui facciamo parte. La storia dei vari approcci sviluppati per proteggere e preservare il nostro pianeta è un viaggio affascinante in cui questioni scientifiche, politiche e morali si mescolano in modo inestricabile.
La storia ci fornisce alcuni indizi su come l'umanità ha preso coscienza e si è presa cura del pianeta, il suo nido. È risaputo che il primo parco naturale “moderno” fu quello inaugurato nel 1872 a Yellowstone, nel Wyoming. “Moderno” qui non si riferisce tanto a un approccio innovativo precedentemente inutilizzato – sarebbe difficile trovare una civiltà che non considerasse vitale preservare le cose che ne garantiscono la stessa esistenza – si riferisce piuttosto, da un lato, ad un modo di articolare una preoccupazione di ordine politico e culturale e, dall'altro, all'applicazione delle conoscenze scientifiche a quel tempo disponibili per guidare quella che oggi è nota come politica ambientale.
La creazione di parchi e aree protette in tutto il mondo è stata il risultato di una nascente consapevolezza dell'importanza di preservare l'ambiente – ignorando però il massacro di popolazioni indigene perpetrato a tal fine – e della volontà, quasi la necessità, da parte di gruppi di persone – soprattutto gli abitanti delle città – di avere un luogo incontaminato, ma allo stesso tempo accessibile, che ricordi la natura pura dei tempi passati. Un'ulteriore ragione era una crescente interazione tra le scienze naturali e sociali volte a comprendere il mondo naturale e, allo stesso tempo, a orientare la nostra visione di situare gli esseri umani in relazione alla natura al fine di preservare entrambi.
Le aree protette sono diventate, nel tempo, il paradigma dominante per la conservazione della biodiversità; tuttavia, questo approccio canonico ha presto rivelato il suo aspetto più critico: la prospettiva di una soluzione 'taglia unica' che ignorasse le particolarità e le modalità locali di co-esistenza tra le popolazioni umane e il mondo naturale. Inoltre, i parchi nazionali replicavano l'obiettivo estrattivo che caratterizzava l'emergente società industriale, nella misura in cui erano visti antropocentricamente come meri fornitori di servizi di cortesia all'uomo.
Ora dobbiamo fare un enorme balzo in avanti nel tempo.
Cento anni dopo, sempre negli Stati Uniti, tra scienziati e ambientalisti ha iniziato a serpeggiare una certa preoccupazione. La strategia di costruire aree protette, per quanto valida e necessaria, non è stata sufficiente a garantire la sopravvivenza della biodiversità esistente o a invertire e recuperare la natura selvaggia dagli effetti devastanti dell'espansione urbana e dei modelli di crescita richiesti dall'implacabile modello economico dominante industriale ed estrattivista. Alla fine degli anni '70, un botanico e giornalista dell'Università del Wisconsin di nome William Jordan ha definito e battezzato una nuova pratica di conservazione, chiamata “ecological restoration”, lanciando nel 1981 la prima rivista scientifica nel settore.
La biodiversità non era solo da tutelare: occorreva un intervento attivo per creare le condizioni adatte alla sua proliferazione ed espansione. L'aspetto interessante è che l’”ecological restoration”, – che sarebbe diventato un sotto-settore dell'ecologia applicata – è nata come preoccupazione di coloro che erano direttamente coinvolti nella gestione della biodiversità. La pratica dell’”ecological restoration”, secondo Jordan, ha fornito i mezzi tecnici per la produzione di una nuova sintesi tra l'uomo e il mondo naturale, in quanto ha richiesto il loro impegno attivo in una comunità ecologica esistente. Ciò ha consentito la costruzione di comunità bioculturali attraverso una prospettiva che Jordan ha definito primitivismo postmoderno.
Si ritenne necessario riscoprire la saggezza tradizionale e applicarla alle condizioni etiche ed estetiche del tempo presente. Le conseguenze sociali e politiche di questo approccio di ripristino ecologico sono evidenti: in primo luogo, la nuova prospettiva ha mostrato che l'approccio delle aree protette non era sufficiente, poiché la pressione che queste aree stavano subendo le metteva a rischio costante di sfruttamento; in una prospettiva diversa, i processi di ripristino ecologico, senza sovrapporsi alle politiche di tutela ambientale, si sono concentrati anche su aree a rischio non concepite come aree meritevoli di protezione, data la loro scarsa rilevanza ecologica; lavorando sulle conseguenze dell'uomo e delle sue attività, i processi di ripristino ecologico assumono inoltre un ruolo pedagogico, quello di produrre nuove relazioni tra umani e non umani.
E qui arriviamo a quella che potrebbe essere definita la terza – e a oggi l'ultima – proposta per risolvere la doppia sfida di preservare ed estendere le specie non umane contemporaneamente alla modifica delle nostre pratiche e dei modi di interagire con esse: il rewilding. Invece del ruolo attivo svolto dagli umani nei due approcci sopra delineati, il rewilding elimina gli umani come agenti di intervento attivo nelle dinamiche naturali e biologiche di una data comunità ecologica; gli esseri umani sono solo, per così dire, strumenti di gestione passiva che dovrebbero intervenire per concepire le infrastrutture formali e informali necessarie per realizzare progetti di rewilding, sia in caso di manifesto disturbo di una data comunità ecologica, sia in casi specifici di introduzione di specie “chiave” per il mantenimento degli ecosistemi.
Insomma, il rewilding è visto come un mezzo per riattivare relazioni “accettabili” tra umani e non umani: permette di riapprendere come condividere spazi che accomunano specie diverse in un modo che può e deve essere vantaggioso per la maggior parte di loro. Attraverso la protezione della capacità di riproduzione e il mantenimento della biodiversità locale, l'obiettivo del rewilding è quello di cercare di 'contaminare' le interazioni umane con il mondo non umano, affinché tali interazioni diventino vettore di trasformazioni socio-economiche e culturali del territorio. Pertanto, il rewilding può essere definito un approccio progressivo alla conservazione. Si tratta di lasciare che la natura si prenda cura di se stessa, consentendo ai processi naturali di modellare la terra e il mare, di riparare gli ecosistemi danneggiati e ripristinare i paesaggi degradati. Attraverso il rewilding, i ritmi naturali della fauna selvatica creano habitat più selvaggi e più ricchi di biodiversità.
Ancora una volta, si tratta di una formalizzazione scientifica, poiché i tre approcci riassunti – istituzione di aree protette, ripristino ecologico e ripristino della natura – sono stati utilizzati in molti modi, anche insieme, nel corso della storia umana. Sebbene solo di recente – ad esempio la prima cattedra è stata istituita solo nel 2020 presso l'Università di Wageningen, nei Paesi Bassi – il concetto di rewilding si sta comunque espandendo rapidamente.
Uno dei luoghi in cui questo approccio è stato adottato in modo convincente è l'Appennino centrale italiano, che comprende le regioni di Abruzzo, Lazio e Molise. Istituito nell'ambito dell'iniziativa Rewilding Europe – che riunisce diverse iniziative e sta attualmente sviluppando otto progetti di rewilding in Europa – il progetto “Appennini Centrali” ha l'obiettivo generale di trasformare un problema – l'abbandono dei territori agricoli e montani di questa zona – in un'opportunità di sviluppo socio-economico e di miglioramento ambientale.
Quest’obiettivo è perseguito attraverso tre obiettivi specifici: creare corridoi di convivenza collegando l'economia locale con la natura selvaggia; l'incremento della popolazione dell'orso bruno marsicano; e promuovere l'osservazione della fauna selvatica.
Il tratto distintivo di questo progetto è il ruolo strategico che attribuisce alle persone nel mantenere la ricchezza naturale della regione e mostrarne la bellezza. Tale consapevolezza e sostegno degli stakeholders e delle persone sono di grande importanza per la conservazione degli ecosistemi dell'Appennino Centrale. Il progetto “Rewilding Appennines” coinvolge le parti interessate locali al fine di sviluppare nuove attività basate sulla natura e allo stesso tempo proteggere la fauna selvatica. Nel 2020, il progetto ha istituito un "Fondo dell'orso", che mira a identificare e collegare imprenditori che rispettano la fauna selvatica e sono disposti a sviluppare prodotti e servizi personalizzati: questo può creare le basi per nuove attività economiche basate sulla natura, come il turismo esperienziale.
Il fondo sostiene, inoltre, lo sviluppo di “Bear Smart Communities” raccogliendo fondi per migliorare le pratiche di conservazione dell'orso lungo i corridoi ecologici dell'Appennino centrale. Infatti, il presupposto alla base dell'inclusività del progetto è che quante più persone – sia locali che visitatori – sono impegnate in iniziative di rewilding – attraverso la comunicazione, gli incontri, il lavoro sul campo – più tali iniziative risultano efficaci e vengono accettate.
Marco Grasso è professore di Geografia Economico-Politica presso l'Università Milano Bicocca. I suoi interessi di ricerca includono la politica ambientale internazionale e la governance dei cambiamenti climatici. Attualmente lavora a un progetto sul ruolo dell'industria dei combustibili fossili nel cambiamento climatico e sulla decarbonizzazione dei sistemi energetici.